"Io - sono - l'atleta". Questo pensavo.
E non era vero.
O meglio: non era sufficientemente vero.
In quei giorni parlavo in maniera arrogante perché pensavo in
maniera arrogante. Tutto mi era dovuto, tutto mi sembrava
scontato.
E anche vuoto.
Il gioco non mi emozionava più.
Ed era terribile.
Non erano le giornate lunghe e un po' noiose dello sportivo, o i
viaggi infiniti, o le serate tra compagne, era proprio il gioco a
lasciarmi indifferente.
Non era calma, eccesso di calma, menefreghismo o eccesso di
menefreghismo.
Era che in campo non riuscivo più a sentire.
Era come se vivessi una vita d'altri ma con addosso i vestiti
miei, che riconoscevo nei fugaci scampoli intravisti nello
specchio.
Mi sentivo così da giorni, che si sono fatte settimane, che si
sono fatte mesi.
Tutto si faceva più ovattato, come se la mia vita fosse stata
impacchettata con la plastica da imballaggi, quella che quando
apri qualcosa passi almeno un quarto d'ora a farne scoppiare le
bolle.
A guardarmi dagli spalti era impossibile accorgersi di tutto
questo tumulto. Continuavo a giocare, continuavo a farlo bene.
Ero al mio apice tecnico e fisico.
Che a me, in realtà, non importasse nulla era un segreto che
custodivo con gelosia, e la gelosia non è altro che la forma
narcisista che assume la paura.
Io avevo paura.
Paura di farmi domande delle quali non conoscevo ancora le
risposte.
A ben pensare, nel corso di una vita, sono molto poche le
domande di questo genere che si ha il coraggio di porsi.
È servita una mazzata sui denti alla vecchia maniera per
mettermi di fronte al mio disagio, ai miei dubbi, e iniziare a
litigarci apertamente, come in un saloon.
Era il primo anno con Capobianco allenatore della nazionale e
lui non mi faceva giocare.
Non faceva giocare me! Capito! Me!
All'inizio: frustrazione.
Emozione primaria, come i colori primari, quando la senti non
la puoi confondere con altre.
C'è voluto tempo per trovare la forza di smetterla di sbraitare.
C'è voluto tempo per dire a me stessa che forse era giunto il
momento di guardarmi, che forse, qualche errore lo stavo
commettendo anche io.
In quel momento lì è iniziato tutto.
Tra un codardo ed un eroe non cambia nulla in quello che sente.
Cambia solo quel che fa in risposta a quello che sente.
Io ho sempre giocato a basket.
Sempre e da sempre.
Mio fratello gioca, mio padre allena, mia mamma ha
scarrozzato tutta la famiglia per andare a giocare o per andare
ad allenare. E fin da piccola tutti mi definivano “una promessa”.
Anche se io non ho ancora oggi mi chiedo chi, al posto mio,
fece quella promessa.
Era arrivato il giorno in cui dovevo chiedermi se davvero mi
piace giocare, o se la mia è stata soltanto una conseguenza.
Causa ed effetto.
La verità spesso è nascosta nel bel mezzo della stanza e quando
te ne accorgi tu vorresti che anche tutti gli altri riuscissero a fare
altrettanto.
Causa ed effetto.
Avevo sentito alla radio della ricerca di un'università americana.
Diceva: "la scienza conferma che dormire abbracciati può
portare ad un miglior rapporto di coppia". Dovrei provarci,
pensi.
Poi ti rendi conto che forse per le coppie che hanno già un bel
rapporto tra loro è naturale aver più voglia di dormire
abbracciati rispetto alle altre.
Causa ed effetto.
Mi piace il basket e quindi ci gioco.
O gioco a basket e quindi devo dire che mi piace?
Credeteci oppure no, è stato difficilissimo. Innanzitutto
chiedermelo.
Poi anche rispondermi.
Perché quando ti leghi così lungamente a qualcosa che è una via
di mezzo tra un desiderio ed una vocazione finisce che ti
dimentichi quel che lo rende bello.
O quel che lo rende brutto.
Il basket è.
E il basket era.
Per me è stato come mettere in dubbio l'amore per una persona;
è stato come accorgersi di una relazione finita, proprio mentre la
stai aspettando sul divano della casa che avete comprato
insieme.
Chiedersi se siamo anche diventati amici o se, ad oggi, non
siamo nient'altro che amici.
Quello che era iniziato come un momento di frustrazione
professionale e personale si era trasformata nella ricerca di
qualcosa di più grande.
Chi sono io?
Perché "io - sono - l'atleta" non mi bastava più.
Ho iniziato dalle cose semplici, come quando fai assaggiare cibi
diversi ad un bambino e dalle facce che fa capisci se gli piace
una cosa piuttosto che un'altra.
Lui ancora non lo sa. Io non lo sapevo più.
Ho ri-scoperto che mi piace leggere e ho ri-scoperto che mi
piace scrivere.
Avevo sempre il comodino pieno di libri ma lo facevo con la
latente sensazione che fosse quasi un atto necessario, che fosse
una forma di rispetto alla mia intelligenza. Un modo per restare
ancorata alla vita vera, quella che vivono gli altri.
Quella che esiste aldilà dei maniglioni antipanico del palazzetto.
In quei mesi ho cominciato, per la prima volta, a leggere per me
e per me soltanto. Ho cominciato a godere della bellezza di
quello che leggevo.
Ho cominciato a scrivere, per me.
Decidere di "fare una cosa" è diverso da "fare una cosa". E la
"cosa" più difficile è capire questa cosa.
Ho iniziato a prendermi cura di me e a smettere di aspettare che
fossero gli altri a farlo al posto mio. Ho iniziato a ritagliarmi
degli spazi privati.
A viaggiare. A fotografare.
A isolarmi quando lo desideravo.
L'amor proprio è semplice da confondere con la supponenza.
Ma io ci ho trovato dentro il conforto.
E, trovato quello, ho persino ritrovato Dio, perché Dio non è
altro che la forma dell'amor proprio del Mondo intero.
Con il tempo ho rimesso quello che succede in campo al suo
posto: in campo.
Il cerchio, per me, si è chiuso qualche mese dopo.
Erano le finestre di qualificazione, di nuovo con la nazionale.
L'allenamento era finito, stavo facendo stretching e ho
semplicemente iniziato a piangere.
Facile.
Preciso, come in un film strappalacrime. Catartico come nella
scena finale.
Mi ero divertita.
All'allenamento, dico, mi ero divertita.
A giocare mi ero divertita.
E mi è tornato in mente di quando da bambina correvo al
campetto per tirare nel canestro, anche sotto la pioggia.
Soprattutto sotto la pioggia.
Ho trovato me stessa, la donna che sono e le mie passioni.
E nel farlo sono inciampata in quella per il gioco, che era finita
sotto ad un tappeto.
Non è stato un percorso semplice, tutt'altro. E non è una strada
che ho fatto da sola.
Non è il racconto di un infortunio o dell'ascesa dopo un'infanzia
difficile. Non è il racconto di una medaglia o di un'impresa
buona per gli annali.
Non è il racconto di un dolore visibile. Non è il racconto di
qualcosa soltanto mio.
Non è nulla di epico, se non fosse che nulla, a questa terra, è
difficile quanto mettersi nudi, davanti ad uno specchio.