Quando provo a spiegare con precisione quale sia il mio approccio al nuoto e perché funzioni così bene faccio molta fatica a farmi capire appieno.
Anche se mi sto confrontando con grandi atleti, campioni che condividono i miei stessi scenari ed obiettivi, non è mai semplice far percepire le mie idee con la linearità con le quali le ho pensate e vissute.
Si tratta quasi di uno scontro tra filosofie.
Modi diversissimi tra loro di intendere lo sport.
I 25 metri, o i 50, di una piscina, la riga nera sul fondo, i galleggianti che dividono le corsie, il cronometro: per ogni nuotatore tutto questo può avere colori e forme differenti, pur essendo in realtà uguali per tutti.
Ognuno riempie la sua performance con il proprio vissuto, con le proprie aspettative e paure.
Con il proprio, personalissimo, rapporto con il risultato.
© Matteo Orsoni
Il nuoto è stato da sempre una fetta importante della mia quotidianità, un rapporto simbiotico.
Ma per quanto lo sport rappresenti quindi più di scelta di vita per me, il mio segreto di longevità sta proprio nel riuscire a ridurre la gara a quello che è veramente: solo un gesto.
La gara è solo un gesto.
È una delle espressioni dello sport, nulla più.
Magari l’espressione più eccitante dello sport, ma resta fondamentale non viverla per ciò che non è.
Certo la gara mette in palio qualcosa, di solito qualcosa a cui ambisci senza mezzi termini.
Qualcosa che vuoi: una qualificazione, una medaglia, magari anche i titoli dei giornali o la gloria.
Ma il punto di svolta è proprio questo: capire che la gara in sé e per sé non è nulla di diverso da ciò che proviamo e riproviamo fino allo sfinimento in allenamento.
Niente di più e niente di meno.
Ed è questa la mia forza principale: riuscire ad isolare completamente il gesto tecnico dal contorno, dal contesto.
Cosa importa se a guardarmi allenare c’è solo il mio allenatore mentre in gara c’è un migliaio di persone?
Nulla.
Perché se devo fare un 50 e so che le mie tabelle di lavoro prevedono che lì farò in un determinato tempo non esiste una ragione al mondo per la quale io non rispetti le previsioni.
È matematica, è scienza.
È il frutto di un approccio al lavoro analitico, furioso, preciso.
Calcolato al centesimo.
Non avete idea di quanti potenziali promesse del nuoto io abbia visto perdersi o anche semplicemente limitarsi nel corso della loro carriera per colpa di qualunque tipo di distrazione.
Gente capace di fare grandi tempi in settimana e di perdere velocità ed efficienza durante la gara perché condizionati da qualsivoglia fattore esterno.
© Matteo Orsoni
Pressione mediatica.
La presenza di una persona speciale sugli spalti.
Le urla di un coach.
L’intimidazione di un avversario.
La paura di vincere o quella di perdere.
Ci sono migliaia di variabili impazzite che come proiettili vaganti possono colpire un atleta sul blocco e stravolgere tutto il lavoro programmato.
A volte in bene: qualcosa di inatteso infatti può darti una botta adrenalinica, la sensazione che i pianeti si sono allineati e che in quella giornata tutto sia perfetto.
Ma spesso invece è uno stravolgimento in negativo e l’atleta finisce con l’esprimere durante la competizione sono una parte delle sue qualità, mandando in fumo il duro lavoro di settimane.
Io non sono così.
Io sono fredda e calcolatrice.
Il rapporto tra l’importanza della testa e quello dell’allenamento nel nostro sport, ma credo anche in altri, come ad esempio l’atletica, è 60/40 a favore della testa.
Deve essere usata bene e lucidamente, la testa.
In fin dei conti, come ripeto sempre, la gara è un momento.
Solo un momento.
È un singolo minuto o poco più per il quale ti sei spaccata di lavoro.
Un minuto di fronte a tonnellate di ore di lavoro.
Perché dovresti permettere alla tensione di rovinarlo?
È come scalare una montagna intera e a 10 metri dalla vetta fermarsi perché ti vibra il cellulare!
© Matteo Orsoni
Ai Mondiali in vasca corta di Istanbul ho toccato il fondo vasca per prima.
Prima in assoluto.
Campionessa Mondiale dei 100 farfalla.
Chiaro che ero felice.
Ma nell’istante stesso in cui ho finito la gara la mia esultanza è stata molto contenuta, ho quasi soltanto sorriso.
Qualcuno mi ha anche chiesto il perché non fossi esplosa di gioia.
La verità è che io avevo già vissuto quella gara, l’avevo visualizzata fin nei minimi particolari.
Avevo analizzato i tempi, miei e delle altre, avevo previsto i passaggi da fare, sapevo perfettamente quando avrei dovuto nuotare veloce.
Quanto veloce per un bronzo.
Quanto veloce per un argento.
E quanto per un oro.
Mi sono fidata del lavoro, dei calcoli, della precisa razionalizzazione del gesto.
Se non avessi vinto sarebbe stato un errore, uno sbaglio statistico.
Perdere sarebbe stato come passare le unghie sulla lavagna e produrre un suono fastidioso, sbagliato.
Ovviamente questo mio approccio matematico, ordinato, che cerca di limitare al minimo possibile l’effetto emotivo ha anche un lato oscuro.
Diciamo il rovescio della medaglia.
Perché se quando i tempi di allenamento dicono che vai fortissimo non esiste un motivo per non andare fortissimo in gara, allora quando i tempi di allenamento dicono che sei dietro le altre che si fa?
© Matteo Orsoni
L’anno dopo le Olimpiadi di Londra per esempio mi sentivo un po’ appagata e anche se mi sembrava di lavorare con la solita attenzione il cronometro era impietoso: non potevo battere le altre.
E questo, per colpa del mio approccio così matematico ed analitico, mi privava della scintilla adrenalinica.
Guardavo le tabelle.
Visualizzavo le gare.
Confrontavo i tempi.
E sapevo che non potevo competere per il massimo, ma solo provare a competere.
Questo rendeva difficile trovare la giusta carica ed era impossibile tirare al massimo le mie marce.
Non c’era altra soluzione se non quella di rituffarmi nel lavoro quotidiano.
Quello feroce, pesantissimo ma accurato allo stesso tempo.
Per fermare ogni giorno il cronometro un istante prima, poi un istante prima ancora e così via.
Il nostro è un mestiere molto logorante, ma proprio come accade in ogni altro lavoro conoscere sé stessi è il primo passo per essere produttivi e longevi.
Io mi conosco benissimo: so cosa mi fa volare sull’acqua e cosa mi mette la zavorra, so come gestire i momenti no e come ottimizzare i momenti di grande forma.
© Matteo Orsoni
Di ogni cento potenziali campioni delle piscine ce ne sono 90 che presto o tardi si siederanno.
Si siederanno alle prime vittorie o dopo i primi buoni risultati.
Crederanno di aver appreso tutto, di non aver più bisogno del lavoro o di un allenatore magari.
Ma i restanti 10, quelli che restano in alto per tanto tempo, lo fanno perché lavorano ogni giorno un po’ di più ed un po’ meglio.
Sempre.
Giorno dopo giorno.
Per andare forte ti devi allenare forte, prendere a testate il cronometro con costanza.
Perché se non lo fai, il giorno della gara arriverai dietro alle altre, anche se tu magari speravi nel miracoloso allineamento dei pianeti.
Questo è il mio consiglio a chi ha fame di arrivare: credere nel lavoro.
Ora scusatemi ma ho un cronometro da andare a prendere a testate.