Irma Testa

Irma Testa

12 MIN

Più che una palestra a dire il vero quella sembrava un centro sociale, che a quell'età io mica potevo saperlo che cos'era un centro sociale.

Ero solo uno scricciolo di bambina, gracilissima ma testarda come un mulo.

Anzino: testarda come un muro, che secondo me è anche più duro della testa del mulo.

 

Sul grosso pavimento quadrato della palestra io ci sono arrivata raccogliendo le bricioline di pane da terra, come faceva il Pollicino delle fiabe per ritrovare la via di casa.

Le disseminava in giro per il paese la mia sorellona, una dopo l'altra, più o meno involontariamente.

Ed io volevo, forse dovevo, fare sempre quello che faceva lei: la seguivo con passi piccoli ma ad altissima frequenza, ed imitavo così ogni sua avventura.

 

Squadra di pallavolo, corso di danza, qualunque cosa facesse quando si girava trovava me, palletta di energia saltellante, sempre sorridente, a seguire fedelmente la sua ombra facendo enorme attenzione a non sbagliare mai un appoggio.

Un po' come quando cammini da sola sopra ad un marciapiede e ti sfidi a non calpestare le linee del mosaico che viene creato dai ciottoli.

Ecco con quell'attenzione lì.

 

Però.

Però la sua ultima passione non mi convince.

O meglio io non la capisco.

Irma Testa

La prima volta che è rientrata a casa mi aveva davvero pietrificata: era piena di lividi, un po' dappertutto.

Aveva anche delle macchie di sangue sulla maglietta.

Ma cosa fai?

Ma come fa ad essere bello scusa?

Lei mi rispondeva sempre con quel miscuglio perfettamente dosato che solo una sorella maggiore sa creare, come le nonne che cucinano pesando gli ingredienti a mano, a braccio, o con le tazzine:

Tu non puoi capire!

E c'era dentro, in quel

tu non puoi capire!

tanta dolcezza quanto paternalismo, tanta apprensione quanta sfida.

È che a me, tra tutte queste farine, quella che digerisco meno è la sfida.

Anche a mescolarla con le altre me ne accorgo del suo sapore, immediatamente.

Se mangio la farina di sfida mi resta sullo stomaco e non dormo, già da bambina ero così, per cui mi sono ritrovata con le mani sui fianchi, i piedi puntati, anzi inchiodati al pavimento e le idee lucidate a puntino:

anche io voglio fare il pugilato, come te!

I libri sono pieni di racconti dove:

i bambini magri diventano muscolosi,

i bambini grassi diventano grandi corridori,

i bambini pigri a scuola diventano luminari della scienza,

eppure i miei primi maestri sembravano non averne letta nemmeno una di queste storie.

Neanche una, perché tutto quello che sapevano vedere in me era ciò che io non avevo.

E quindi: se una cosa, una qualità, una forza, io non ce l'ho, e anche tu, che mi stai cercando di insegnare qualcosa di importante non la vedi, allora come farò a scavare abbastanza a fondo da accorgermi che invece forse c'è?

Irma Testa

Ah non puoi!

Sei gracile!

Fai così mettiti in fondo! Finché non raggiungi il livello degli altri.

Ma scusa eh: se io a fare una cosa sono un po' meno brava, o un po' meno portata degli altri, come posso pensare di raggiungerli lavorando meno di loro?

Facendolo in fondo al gruppo?

Non siamo mica tutti uguali, il bastone e la carota van pesati, dosati e anche messi via qualche volta.

Allenare tutti non è cosa per tutti.

Quindi io me ne stavo lì, spalle appiccicate sul fondale come un pesce timido, con tutti gli altri bambini davanti e provavo a dare i miei pugni al vento.

Provavo a tenere le braccine alte in posizione di guardia. Cercavo di capire come muovessero mani e piedi quelli che lo facevano meglio di me.

Ferma!

Una voce dall'alto.

Ma figurati se sta parlando proprio a me, la ignoro e continuo a far vorticare i pugnetti.

Sguardo concentrato e riprendo: destro-sinistro, piede avanti, piede indietro.

Ferma! Fermati!

Occhei: ce l'ha con me.

Alzo lo sguardo e vedo comparire da una grossa finestra che si affacciava sulla palestra il volto rugoso del Maestro.

Non di un maestro, ma del Maestro, il maestro della palestra.

Irma Testa

Si chiama Lucio Zurlo e anche se sono poco più di una bambina io so perfettamente chi è lui.

Ma non è che lo so solo io, tutti giù da me lo sanno chi è Lucio: è una leggenda della nostra boxe. Una leggenda che non allena più, o quasi.

È a capo della palestra e dall'alto del suo ufficio osserva generazioni intere di ragazzi e ragazze alternarsi sopra il suo quadrato, che quello lì è proprio "il suo", di quadrato.

Li vede iniziare le routine d'allenamento, li guarda crescere e sbagliare.

Dall'ufficio ha visto labbra, e nasi, e sopracciglia collidere, gonfiarsi e sanguinare. Oggi, come ieri e come vent'anni fa.

Come succedeva ai suoi labbra-naso-sopracciglia quando non era abbastanza veloce per schivare qualche colpo, anche se Lucioin verità non ha mai boxato.

Lucio scende in sala, il che è già una rarità di per sé, mi prende di peso e mi porta davanti al sacco fisso.

Mi dice che:

Noi lavoriamo qui. Fino a quando non sei pronta per andare con gli altri io e te lavoriamo qui.

Non lo so davvero se nei mesi successivi a questo primo momento mi abbia mai fatto un discorso più lungo di questo.

È un uomo di poche parole, un uomo anche di pochi gesti, ma ognuno di questi e ognuno di quelle hanno un peso specifico enorme. Tutti da knock out.

Da buon pugile di una volta non si preoccupa di mettere a segno mille cazzotti che finirò col dimenticare, ne piazza pochi, precisi ed indimenticabili.

Irma Testa

Il volto di Lucio è quello di chi ha una storia da raccontare, che sia una diversa ogni volta o sempre la stessa non cambia nulla perchè tanto lui non è che poi te la racconta davvero.

È nel corso dei mesi, nell'accumularsi di ore al sacco fisso, che lui dissemina piccoli pezzi di quel puzzle gigantesco che è la sua vita.

E se sei brava allora te ne accorgi e pian piano li raccogli e li metti tutti insieme pazientemente, con calma perché certi saperi richiedono tempo per essere immagazzinati, fatti propri.

Ed io, a quell'età ero una spugna, apprendevo tutto e sapevo visualizzare benissimo.

Immaginavo le cose che desideravo, chiudevo gli occhi forte e mi comparivano davanti, riuscivo ad assaggiarne il sapore persino.

Lucio mi ha preso sotto la sua grande ala, si è seduto al mio angolo con l'asciugamano e mi ha dato gli strumenti per andarmi a prendere ciò che sognavo.

La mia non è stata un'infanzia semplicissima.

Eravamo una famiglia numerosa: oltre ai genitori quattro figli, due femmine e due maschi.

Quando mio padre ha perso il lavoro abbiamo dovuto affrontare molte ristrettezze tra le quali, forse, la più traumatica è stata lasciare casa e trasferirci dai nonni.

Le mie richieste da bambina molto spesso non potevano essere esaudite: andare in gita, fare il corso di nuoto: non si poteva.

Semplicemente non si riusciva.

Io sono cattiva sul ring, ho una grande fame, una tensione elettrica alla base del cranio come una scossa costante che mi tiene vigile ed arrabbiata.

Fino a che non mi vado a prendere le cose.

Irma Testa

Visualizzavo la mia strada per la fuga, la scappatoia.

Un sentiero tortuoso verso l'emancipazione: volevo una via d'uscita.

E questo era un motore che mi impediva di fermarmi durante qualunque tipo dall'allenamento, anche quando non ero altro che una bambina.

Solo meno gracile di quella degli inizi, ma pur sempre una bambina.

Visualizzavo l'andarmene di casa, volevo prendermi cura delle mie richieste da sola, perché gli altri non potevano farlo. Guardavo la gente emergere, finire arruolata dentro i gruppi sportivi militari ed era come gettare cubetti di diavolina sopra il mio falò.

Non mi sono fermata mai.

Non mi sono fermata mai fino al giorno in cui ho smesso di guardare il prezzo delle cose al supermercato ed ho iniziato semplicemente a prendere ciò che mi serve.

È evidente che non è sempre stato così.

Ricordo la settimana che ha preceduto il mio primissimo incontro ufficiale: dovevo rientrare nel peso e farlo non era certo scontato.

Non era scontato perché un'alimentazione equilibrata, sana e bilanciata è un lusso, richiede tempo, attenzione e soprattutto soldi.

E Lucio quella settimana mi ha tenuta a casa sua, nella stanza per gli ospiti, con sua moglie che cucinava per me, che pesava i grammi di pasta e quelli di pollo.

A casa mia probabilmente avrei sgarrato, sarebbe stato difficile chiedere di poter mangiare qualcosa di diverso da ciò che veniva servito a tutti gli altri.

Irma Testa

Oggi la mia vita è facile, è normale.

Molto lo devo agli occhi vispi di Lucio, quelli che si porta in giro contornati dalle rughe e dai pochi capelli bianchi che gli sono rimasti.

Sono gli occhi vivi e placidi di chi sa già cosa stai per dire, ma comunque non si perderebbe per nulla al Mondo l'occasione di osservare da vicino lo sforzo che stai facendo per dirlo sul serio.

Occhi di chi sa.

Di chi sa tutto.

Fin da quando sono bambina è il sacco a darmi il ritmo delle giornate.

È come uno di quegli orologi da sala enormi, quelli di legno che hanno la pendola sotto che oscilla da destra a sinistra, solo che nel mio orologio è il sacco da boxe a muoversi sotto il quadrante.

E ora che sono arrivata in un posto che mi piace, quando mi fermo un secondo e guardo indietro riesco ad osservare casa, la stessa casa che identificavo con le privazioni e le difficoltà.

E adesso mi manca: nessun posto è come casa.

Un quartiere difficile, con la criminalità e la disoccupazione, ma anche con il ragù della nonna nel piatto la domenica.

È anche il posto dove, quando torno per un pranzo, il casino regna sovrano ed intorno al tavolo tutti gridano e litigano come si fa nelle famiglie numerose: col sorriso.

Ed è li, a pochi metri dalla finestrona di Lucio e immersa nel vociare dei parenti più cari, che mi metto le mani dietro alla testa, faccio un respiro profondo e mi godo l'attimo di pace.

Almeno fino al prossimo cazzotto.

Irma Testa / Contributor