immaginati l'arte.
Puoi passare mille ore a studiare la vita degli artisti.
Chi ha fatto questo? Chi ha inventato quello?
Dipinti, sculture, pezzi di storia. Pezzi della storia dell'arte.
Il tipo di cose che servono per riempire i libri.
Ma nell'arte molte cose non le può insegnare nessuno.
Nessuno può dire come si fa.
Nemmeno l'artista.
Perché l'artista fa quello che non era mai stato fatto prima.
Altrimenti non è un vero artista.
L'artista crea e chi sa creare, non spiega, crea!
Così funziona lo skate.
È dal fallimento che nasce una nuova idea.
L'idea che diventa un trick e che poi, un giorno, forse, diventa patrimonio collettivo.
Qualcosa che tutti vogliono copiare.
Ma è come paragonare l'arte ai quaderni da colorare, con dentro le riproduzioni dei quadri famosi. Quelli con i numerini per non sbagliare il colore e per stare dentro i bordi.
Se tocchi la storia dell'arte alla gente, quella impazzisce.
Che la cultura è una cosa seria.
La forma del presente l'hanno scelta i grandi classici.
Molti, però, si dimenticano che il futuro è esattamente il posto dove ogni classico è stato concepito, pensato e realizzato.
Non diventi un classico se non hai distrutto il presente e inventato un pezzo di futuro.
Lo skate alle Olimpiadi.
Lo skate come l'arte che alle Olimpiadi c'è stata per davvero, fino al '48.
Premiavano le opere migliori. Davvero! Con le medaglie! Quando l'ho scoperto mi si è aperto un mondo. Perché il mio non è soltanto uno sport, ma è uno stile di vita, è una cultura. È arte, e ora la porteremo nelle case di molta gente che ancora non la conosce.
© Xgames
Ho cominciato a skateare che ero mega-piccolo, avevo tipo quattro anni. La cosa incredibile è che quella non era la mia prima tavola, perché l'anno prima avevo già messo i piedi sullo snow ed ero andato sulle piste.
Tutta colpa di un cartone animato, mi ero preso bene subito e i miei mi regalarono uno skate giocattolo, quando ancora facevo fatica a camminare.
All'inizio mi esercitavo nello skatepark local, appena sotto casa. Mi sono gasato talmente tanto da spostarmi a Torino, dove c'era l'unica struttura indoor di livello adeguato.
A volte è difficile spiegare come si diventa forti. O ce l'hai o non ce l'hai: è qualcosa di profondo che ti brucia dentro. Il mio universo gira intorno a lì, da sempre.
Mi sono sempre sentito parte della cultura che si respira nello skate.
Mi sono sentito rappresentato da tutto quello che è.
Un misto unico, con tante robe nel mezzo.
È occhio, perché fatto di immagini, colori ed estro.
È orecchio, perché fatto di vibrazioni e di ritmo.
È corpo, perché fatto di esperimenti, di trick e di fantasia.
Io a scuola mi sono sempre irritato parecchio. Non mi sentivo per niente a mio agio nello stare seduto composto per 8 ore al giorno. Io volevo stare solo nell'ambiente dello skate, con i miei amici, perché li mi sentivo me stesso.
Ho avuto la fortuna di avere genitori bravi a capirmi, senza la pretesa di farmi diventare come tutti gli altri, che la mia strada l'ho trovata lo stesso no?
Ho vinto il campionato italiano che ero poco più di un bambino. O forse ero ancora un bambino, boh, non lo so, la differenza è sottile, e di sicuro cercarla è inutile perché siamo tutti sempre adulti e siamo tutti sempre bambini.
Poi, ho iniziato a girare il Mondo.
L'ho visto tutto, o quasi. Più di una volta.
Uscire dall'ambiente italiano per confrontarmi con quello che c'era fuori è stato facile dal punto di vista personale, perché la nostra è una famiglia unita, che si riconosce in quello che fa, ma è stato difficile dal punto di vista tecnico.
È dura mangiare la polvere.
È dura soprattutto quando in Italia vinci sempre.
In Europa non mi andava mai bene. Facevo la mia gara, con il mio stile e i miei numeri, ma venivo sempre castigato nei voti.
La verità è che nello skate se non hai il nome non vai avanti.
Esattamente come funziona in tutte le discipline in cui il risultato è determinato dalla volontà di un giudice, con l'aggiunta che da noi non esistono i coefficienti di difficoltà uguali per ogni atleta.
Sei solo tu, con il tuo trick e l'occhio del giudice. Basta.
Mi ero talmente scocciato di andare al di sotto delle mie aspettative che stavo anche pensando di smettere di gareggiare. Poi, un giorno, mi hanno invitato a una tappa delle Vans Park Series che, insieme agli X Games, sono la cosa più figa del nostro circuito.
Sono arrivato lì, in Brasile, e ho semplicemente fatto le mie cose di sempre, togliendo le protezioni e mostrando a tutti quello che so fare. Sono arrivato secondo.
Cioè: secondo di fronte a tutti i migliori del Mondo, leggende come Pedro Barros e Kevin Kowalski, mentre in Europa non riuscivo neppure a entrare in finale?
Ho capito che forse non era sbagliato il mio modo di skateare.
Ho capito che sono bravo e alla gente piace quello che faccio.
La mia vita è cambiata, da quel momento sono diventato abbonato al podio. Quasi non riuscivo a crederci, ma, all'improvviso, tutti si sono accorti di me, al livello più alto in assoluto.
È alle Vans Series che ho scoperto il mio stile.
Lo stile è una cosa strana, è come un animale in carne e ossa.
Lo devi scoprire poco alla volta e diventarci amico, perché chi ti guarda da fuori lo capisce se sei sincero oppure no. Devi crearti un alter ego, un essere che si impadronisce di te quando sali sullo skate e che porta uno spettacolo unico a chi lo sta osservando.
Io ho sempre odiato l'omologazione, a partire dal vestiario, che è una parte fondamentale del personaggio. Ricordo di aver messo una tuta camo rosa, almeno 4 anni prima che diventasse anche solo vagamente di moda.
Poi ognuno ha il proprio processo creativo nel mettere in piedi lo show, nello scegliere le linee migliori e le transizioni più fighe.
A me piace guardare quello che fanno gli altri.
E poi fare il contrario.
La prima tappa che ho vinto era a Vancouver e ricordo che uscirono tutti di testa perché vicino alla bowl c'era una ringhiera e io mi ero inventato di usarla in un trick. Tocco e rientro. Nessuno ci aveva pensato, e il pubblico è impazzito.
Questo è quello che voglio portare alla gente, perché questo sono io.
In più sono anche testardo.
Tutti gli skater cadono. Molto spesso, sulla tavola, errore fa rima con dolore.
E ti resta in testa:
"Sono caduto facendo quel trick".
Quando ti fermi un attimo senti tutti gli acciacchi del tuo corpo, ma devi riuscire a farti poche pippe mentali e a fregartene. A me viene facile. Io più sbaglio e più mi incazzo.
Io ci vado addosso all'errore, finché non lo supero, finché non imparo.
Oggi il nostro mondo è davanti a un cambiamento.
Se fossi americano la mia prospettiva probabilmente sarebbe diversa, e vedrei le Olimpiadi come una semplice curiosità.
Ci sono posti, sul Pianeta, il cui lo skate ha una base forte.
Posti in cui non è una cultura. È la cultura.
In Canada, in Brasile, negli States puoi incrociare per strada i sessantenni che vanno al lavoro sul longboard invece che sulla bici. Puoi vedere i cartelloni pubblicitari giganti ai bordi delle autostrade con gli skater a fare da testimonial a qualsiasi cosa.
Qui da noi, invece, non abbiamo questa visibilità e andare a Tokyo forse da questo punto di vista è una grande occasione.
Lo stile sarà un po' macchiato, ma va bene così.
Va bene perché la gente potrà apprezzare di più lo skate e quel che apprezzi prima o poi ti sforzi anche di provare a capirlo.
Portare lo skate sotto i cinque cerchi è qualcosa di inedito, e nessuno sa bene cosa aspettarsi. Forse ci sarà un approccio un po' troppo professionistico, come ho già avuto modo di toccare con mano nelle gare di qualificazione.
© Maurizio Annese
Agli X Games o alle Vans Series tutto ruota intorno all'entertainment. Old School.
I partecipanti sono pochi.
Vengono scelti.
Selezionati.
Invitati.
Trattati come rockstar.
E messi nelle condizioni di portare il loro spirito nella competizione.
Ad ognuno di loro vengono concesse ore per studiare le linee e le traiettorie migliori. Ognuno porta tutto quello che ha e lo mette al servizio degli altri.
È lo show perfetto.
Nelle qualifiche olimpiche ho visto per la prima volta lo stress nello skate.
Decine di atleti tutti contemporaneamente a girare, per provare le linee, in sedute di allenamento da 45 minuti al massimo.
Troppa gente, troppo poco tempo.
È la stessa differenza che c'è tra andare ad un festival musicale di altissimo profilo, pieno di band incredibili che salgono sul palco, e poi andare a vedere le audizioni per un talent, dove i cantanti di ogni livello hanno un minuto per convincere la giuria a non dargli un bel calcio nel culo.
Lo skate è un universo parallelo nel quale vivo da quando ero veramente piccolo.
Come tutto quel che è arte anche noi guardiamo al futuro con curiosità, e Tokyo sarà sicuramente una novità importante.
Ma quello che rende il nostro ambiente davvero unico è che non si tratta di uno semplice sport, ma di una cultura. Una cultura dove storia, musica, streetwear e trick diventano una cosa sola, più grande di tutto il resto.
Qualcosa di bello a cui appartenere e a cui portare qualcosa.
Perché ci sono due filosofie dietro la nostra arte.
Due modi di dire la stessa, unica, verità.
Skate or distroy, oppure Skate or die, che mi sono anche tatuato da solo sul piede.
Non significano: lo skate o nient'altro.
Significano: nient'altro che lo skate, perché dentro lo skate c'è già tutto.