Ogni posto è il mio posto felice, se posso scalarlo.
Mura, pareti, montagne.
Ma anche alberi, sassi, porte e finestre.
Dove posso aggrapparmi con le mani e con le dita, con i piedi e con la mente, quello è il mio posto.
Ed è sempre stato così.
© Simon Raine
Da bambina, se non riuscivi a trovarmi per terra, all’altezza del suolo, dovevi alzare la testa, perché di sicuro ero incastrata su qualche ramo o su qualche balcone.
Dovevi guardare il cielo per trovarmi.
Nella mia famiglia nessuno aveva mai praticato alcuno sport, nessuno conosceva l’arrampicata, e quando la portai dentro casa non era neppure chiaro se fosse davvero uno sport.
Stile di vita, sport o filosofia, non importava: a me piaceva semplicemente andare in alto, il più in alto possibile.
© Simon Raine
Un giorno, di domenica, mia mamma voleva pulire casa e per impedirmi di disturbarla con le mie peripezie da scalatrice domestica, mi spedì al parco.
Così avrei preso un po’ di sole e sarei rimasta un po’ all’aria aperta.
Lì, trovammo una parete da arrampicata, per un evento aperto al pubblico di cui neppure conoscevamo l’esistenza.
Mi fu chiaro immediatamente che quella sarebbe diventata la mia vita.
Al primo tentativo arrivai fino in cima, e da allora non ho più guardato in basso.
Lasciai il gruppo di ballo di cui facevo parte (hip-hop, roba da bimbe scatenate, ovviamente) e non mi dedicai più a nient’altro.
Tutto il mio tempo venne diviso tra la scuola e l’arrampicata, che aveva la capacità di fare sentire speciale ogni istante che le veniva dedicato.
Quando sento i buchi, sotto le dita delle mani o dei piedi, è come se il mondo rallentasse, come se diventasse più morbido, più leggero. Più semplice.
La difficoltà invece che annebbiare, chiarifica la vista, la aguzza.
Offre una soluzione.
È un momento che dura pochissimo, ma che occupa un sacco di tempo.
E devi incanalare tutta la tua forza in quel preciso angolo, che è minuscolo, ma che diventa il perno del tuo intero essere.
È come scomporre se stessi e ricostruirsi un ostacolo alla volta, spostando il peso dentro una piccolissima parte di te, che diventa il tuo tutto.
Ti fa sentire fortissima e allo stesso tempo leggera.
Fragile, eppure inamovibile.
Brillante, ma anche logica, ferma.
Pura.
È la creatività al servizio della soluzione di un problema.
Un cubo di Rubik scritto in braille.
É uno sciogliersi dentro la parete. Come l’acqua che si adatta alla forma del contenitore che la ospita, ma che ha anche la forza di distruggerlo, se solo le viene dato il tempo.
Fin dal primo giorno sapevo che avrei fatto questo nella vita, che diventare una scalatrice era il mio destino, il mio futuro.
Non immaginavo di essere la migliore, né sognavo di diventarlo, ma ero certa del fatto che su quella parete ci avrei trascorso l’esistenza, che quello che modo giusto per esprimere la mia essenza.
Alla mia prima gara arrivai penultima.
Ma non mi importava affatto.
La sola cosa che contava era la possibilità di farlo ancora, e poi ancora.
Tutte le volte che volevo.
Salita dopo salita, ho cominciato a trovare il mio stile, il mio modo di intendere la roccia, l’ascesa.
La sfida.
A occhio nudo, se non sei un esperto, possiamo anche assomigliarci tutte, ma in realtà non è così, perché il carattere di ognuna di noi esce, modellandosi in un dialogo con le asperità e con gli spigoli della parete.
Ci si scopre pazienti oppure istintive.
Assennate o pronte a correre rischi.
Ansiose di arrivare in alto, o innamorate del percorso che serve fare per arrivarci davvero.
Ognuna è se stessa, sulla parete.
E capire chi sei è il primo passo per andare fino in cima.
Quando ho iniziato, mi ispiravo a Maja Vidmar e a Mina Markovič, le grandi slovene del passato, e provavo a imitarne lo stile, in tutto e per tutto.
Erano i miei modelli, le mie eroine, e su di loro costruivo l’approccio alle mie gare.
Strategica, calma.
Sempre sotto controllo.
Senza mai prendere rischi inutili e soppesando ogni singola scelta: una scalatrice cerebrale, logica, conservativa.
Poi ho capito che avrei potuto continuare la loro tradizione anche esprimendo chi sono davvero, e mi sono aperta a quello che sentivo dentro, a quello che volevo davvero. Alla bambina che ero stata.
Ho imparato ad apprezzare il mio carattere per quello che è, e sono diventata un’atleta completamente diversa.
High risk, high reward: questa è la mia filosofia oggi.
Un movimento fluido, dinamico.
Coraggioso.
La continua ricerca dell’alternativa, della creazione, della visione.
Di un modo solo e soltanto mio di vincere la parete.
Ed è così che sono arrivata ad esprimere appieno tutto il mio potenziale, fino al livello più alto in assoluto.
Maja e Nina non hanno vissuto i Giochi Olimpici, perché quello è un privilegio della nostra generazione: una trasformazione che sta cambiando l’intera disciplina.
Ricordo quando si iniziava soltanto a parlare della possibilità di entrare nella famiglia olimpica, e ricordo l’elettricità che sentivo addosso.
Non stavo nella pelle al pensiero.
La sera in cui la notizia divenne finalmente ufficiale, andai subito su Instagram per fare un post con la foto dei Cinque Cerchi. “Here we come”, ho scritto nel copy.
Quello che non resi pubblico, invece, fu il programma che preparai nella progettazione delle Olimpiadi.
Passo per passo, tutto ciò che si sarebbe servito fare per andare a Tokyo 2020.
E per andarci a vincere qualcosa di importante.
© Lena Drapella IFSC
Ora come ora, niente è più importante dei Giochi, anche se sono una novità, per la nostra community.
Tre giorni dopo la fine di una Coppa del Mondo sento già il bisogno fisico di tornare ad allenarmi, di arrampicare.
Dopo Tokyo e dopo l’oro mi ci sono voluti mesi.
Non sapevo cosa avrei dovuto o voluto fare con la mia vita: mi sentivo persa, una volta raggiunto un risultato così grande.
Ho vinto la Coppa del Mondo post Olimpica senza alcun tipo di pressione, o di motivazione. Scalando vuota, come un automa.
Ho avuto bisogno di tempo per ritrovare i miei perché, la mia passione.
E ho imparato ad essere gentile con me stessa.
© Lena Drapella IFSC
Come un blues, la malinconia ha girato nella mia testa per un po’.
Finché, lentamente, non ha cominciato a tornare il sereno.
Sono ripartita dalle radici, dalle origini.
Dal gesto più semplice.
Dallo scalare le cose, dal mettermi alla prova, come facevo da piccola.
Ogni posto è il mio posto felice, se posso scalarlo.
Mura, pareti, montagne.
Ma anche alberi, sassi, porte e finestre.
Dove posso aggrapparmi con le mani e con le dita, con i piedi e con la mente, quello è il mio posto. Lo è sempre stato e non c’è alcun motivo di cambiarlo.
Neppure con un oro olimpico al collo.
Neppure ora che sono grande.