"Jole si diverte a fare lo sgambetto a tutti i compagni che tornano al posto.”
Quindici anni dovrebbero bastare per far cadere un reato in prescrizione, ma per essere sicura, io, i libretti con le note, li ho tenuti tutti.
Che non si sa mai.
Diligentemente impilati nel cassetto, sono lì a guardarmi, sempre pronti a ricordare a tutti da dove viene il mio carattere fumantino.
Stando a quanto dice la prima, pare che mi divertissi a fare lo sgambetto ai compagni di classe mentre tornavano al loro posto, ignara dei richiami e fiera come un pirata con la benda sull’occhio.
Non a uno, non a due e non a tre compagni.
Ma a tutti, nessuno escluso, di ritorno dal bagno o, chissà, dalla ricreazione.
Difficile pensare che li abbia fatti cadere proprio tutti-tutti, anche perché mi auguro che, cascati i primi, gli altri fossero in grado di capire che forse era meglio non passare dalle mie parti, ma noi, vista l’occasione, prendiamo comunque per vero che ci provassi con ognuno di quelli che mi capitavano a tiro.
Cadere a naso all’ingiù, pensavo, non è poi tanto male, visto quanto piace farlo a me.
Da piccola passavo i pomeriggi a giocare con i miei fratelli maggiori e molto spesso ero la cavia per i loro esperimenti di meccanica applicata. Come quando mio fratello decise di scorrazzarmi per le vie di Livigno ad una cassettina con le ruote fatta interamente di mattoncini della Lego, che trainava pattinando con i roller.
Abitacolo frantumato al primo tombino preso di slancio e culo a terra per me, che ridevo come una matta e ricominciavo subito ad assemblare i pezzi del mio bolide multicolore.
Avevo sempre le ginocchia sbucciate e piene di croste, come è giusto che sia quando sei un bambino, e mai avrei pensato che qualche sano capitombolo potesse indispettire tanto il corpo docenti.
“Dopo essere stata richiamata,
Jole ha continuato a scendere le scale arrampicandosi”
Anche questa, ahimè, è vera.
Non mi è mai piaciuto fare le cose nella stessa maniera in cui le facevano gli altri, perché a confondersi con la massa, in fin dei conti, che gusto c’è?
Scendere e salire le scale è come scendere e salire dalla montagna: anche lì ci sono delle regole precise che non sempre ho dimostrato di morire dalla voglia di seguire.
Quando mi veniva detto qualcosa, molto spesso, andavo dritta a fare l’esatto contrario.
Un po’ per convinzione e un po’ per sport.
E di sport, potete starne certi, ne ho provati parecchi, fino al momento in cui ho trovato quello giusto per me. Lo spazio quassù a Livigno non manca, le alternative neppure, e tra la roccia da arrampicata, la mountain bike e lo sci di fondo, alla fine ho scelto lo sci, perché con quello potevo seguire le orme di mio fratello, che era il mio eroe.
Lui ha otto anni più della sottoscritta e quando il pomeriggio partiva per andare a sciare io obbligavo la mia mamma a portarmi con lui, anche se non potevo certo unirmi alla sua squadra. Anzi.
Quindi, mentre lui scendeva bello diligente, in fila con i suoi compagni, io, accompagnata dalla mamma li seguivo a ruota, ospite indesiderata in fondo al gruppo, pur di fare quello che faceva lui.
Non c’era modo di farmi cambiare idea, pena un pianto disperato che rovinava il pomeriggio di quiete a tutta la valle, e non bastavano neppure le occhiatacce dei suoi allenatori a farmi cambiare idea.
“Jole durante la lezione lancia pezzetti di carta.
Il suo disinteresse per le attività continua anche quest’anno”
Probabilmente, da piccola, ero un po’ melodrammatica, lo ammetto, ma questo non cambia il fatto che circolino sempre più versioni della stessa storia, e fino a quando non le hai sentite tutte è meglio non esprimere un giudizio definitivo.
I pezzetti di carta lanciati per aria, se li colori, diventano coriandoli piuttosto in fretta, e magari erano il mio modo di esprimere allegria. Stesso discorso per il disinteresse, che non può essere soltanto colpa di chi lo manifesta, e mai di chi lo ha generato.
Quel che è certo, è che pur non essendo stata una studente facile, o un’atleta facile, dentro avevo qualcosa da dare, e qualcuno presto o tardi l’ha capito.
A volte è una maestra, a volte un amico, o un lontano zio d’America, ma nel mio caso è stato Lorenzo, il mio allenatore, che quando mi ha preso sottobraccio ha intuito al volo come sono fatta.
Dico quello che penso, sempre.
Anche contro i miei interessi.
Soprattutto contro i miei interessi.
E se devo scegliere tra imparare ad essere un po’ più paracula o continuare ad essere me stessa, la risposta la sapete già.
È tutto molto immediato, con me. Ho avuto sempre la dote di riconoscere immediatamente chi mi ritrovo davanti e per questo parlo con tutti, ma mi fido di pochi. Sono tanti gli allenatori bravi, specie nel nostro ambiente, ma sono soltanto una manciata quelli con cui puoi anche parlare, e per la mia psiche, riuscire a farmi capire, sta alla base di ogni cosa.
“Hai fatto cagare”: se lo dici nel modo giusto, a qualche atleta può persino dare la carica giusta per risalire il pendio e rifare tutto meglio di prima.
Io non sono affatto tra questi atleti, e dietro le mie spalle larghe c’è un’emotività nascosta, che non vede nessuno, e che salta fuori soltanto mi girano i 5 minuti.
Niente grida e niente colpi di testa: vado nel mio angolino e piango per gli affari miei, affinché nessuno possa vedermi.
Ecco, con Lorenzo, invece, tutto è sempre stato semplice, perché lui sa quando dirmi qualcosa e quando non farlo; quando lasciar parlare gli occhi e quando fidarsi del mio sguardo. So quello che faccio anche se non significa che, per questo, io non sbagli mai.
“Il comportamento di Jole in palestra diventa sempre più scorretto e pericoloso.
L’ho trovata appesa a testa in giù su un attrezzo.”
Testa in giù o testa in su, è tutto relativo. Dipende da che lato mi stai guardando.
Una buona idea si trasforma in fretta in una che non lo è, ma per lo meno, io, ho sempre avuto la fortuna di avere vicino persone che mi han capita fin dal principio.
Prendete mia sorella, per esempio.
È stata lei a convincermi a cambiare sport.
Una piroetta degna di un grande contorsionista, o meglio ancora di un freestyler, che mi si addice di più. Con lo sci alpino andava abbastanza bene. Ma non abbastanza da sentirmi del tutto felice. Quando sono arrivata al confine tra la Coppa Europa e la Coppa del Mondo, che di solito definisce il tuo massimo livello, sono rimasta incastrata nel mezzo.
Ho fatto la mia prima gara nel circuito dei grandi a Soelden, all’apertura della stagione, entrando in squadra grazie anche a qualche infortunio, ma di sicuro per abbondanti meriti miei.
Ho persino sfiorato la qualifica nelle migliori 30.
Poi più nulla.
Mai una singola convocazione.
Forse per meritare un’altra chance avrei dovuto vincere quella gara, non so, sta di fatto che quell’assaggio di avventura, lasciato a meno di metà, non sono mai riuscita a digerirlo del tutto.
Troppo vecchia per essere davvero giovane.
Troppo giovane per sentirmi già vecchia.
Ancora oggi faccio fatica a collocarmi nel tempo, e nelle stagioni che hanno seguito quel singolo pettorale austriaco, non ho fatto altro che sentirmi fuori posto, con lo sport che era diventato un dovere, ma lo sci ancora ben presente nel mio cuore.
Tornavo a casa col musone, triste come uno stambecco senza corna, finché mia sorella, che di psicologia a quanto pare se ne intende, non mi ha proposto di cambiare.
“Jole sostiene che non meritava la punizione e quindi non la vuole eseguire”
Basta punizioni, soprattutto se non le merito.
Basta sentirmi la persona giusta nel posto sbagliato.
Basta sentirmi gli occhi addosso se dopo l’allenamento voglio bere una birretta con gli amici di tutta una vita.
Lo skicross all’inizio non mi convinceva, perché era impossibile non vederlo come un ripiego. Mia sorella aveva dedicato anima e corpo allo short track per poi essere una delle ultime escluse prima di Torino 2006, e non voleva che io provassi la stessa delusione. Così mi ha spinto a provare qualcosa di nuovo, che contro ogni previsione ha funzionato alla grande, perché me ne sono innamorata subito.
Scendere fianco a fianco con le avversarie da un rush di adrenalina senza pari, e la competizione più accesa sposa bene il mio carattere, spigoloso quanto i gomiti.
Nei buoni risultati raccolti in fretta, ci sono tanto il piacere della scoperta quanto quello della rivincita, e in più, come un regalo che trovi sotto l’albero anche se non lo stavi aspettando, ho percepito un ambiente di lavoro molto più rilassato, dove posso essere me stessa senza paure.
Oggi la possibilità di andare a Pechino è reale, così come lo è anche la prospettiva di arrivare in futuro a competere con le migliori al Mondo, cosa che nello sci alpino, sicuramente, mi sarebbe stata preclusa per tante ragioni, di cui almeno la metà dipendono da me.
Se metto in ordine cronologico tutte le note che ho preso da bambina, ne esce una storia niente male, che fa ridere qualcuno e mettere le mani nei capelli qualcun altro, ma che se viene letta con attenzione può anche spiegare come sono fatta, perché se tornassi indietro sono certa che combinerei le stesse identiche marachelle, cercando magari di essere più furba.
E se ai Giochi, alla fine, ci vado per davvero, sono certa che nella mensa olimpica il responsabile di sala avrà modo di scrivermi una bella nota. Non deve neppure faticare per pensare al testo, basta copiare quello che scrisse la mia maestra, quindici anni fa:
“Jole si aggira tra i banchi come se fosse in piazza.”
Felice come una pasqua, aggiungo io.