Inizi.
Ti appassioni.
Fatichi.
Combatti le tue turbe.
Arrivi in alto.
Poi all’improvviso ti trovi ad affrontare un passato che non passa, e scopri che quello che hai dentro, sepolto dagli anni, e che pensavi di aver superato, in realtà è sempre al tuo fianco, nascosto, e che determina le ragioni del tuo agire, oppure il bene che ti vuoi. L’amore che provi nei confronti del tuo sport, che non è eterno, e non è inscalfibile.
Anni di scrittura, anni di lavoro.
Ho dovuto costruire un equilibrio perfetto per riuscire ad andare avanti così a lungo.
Ore passate a cercare di mettere insieme i ricordi e i pensieri, le ansie ed i perché.
Scopri col tempo che la paura serve, e che i grandi campioni la sentono tutti. Come una grande forza, che attiva la mente, che spinge il corpo e che ti porta oltre, ti obbliga a diventare il leader di te stesso.
Presente ma assente, attore e spettatore: l’atleta deve essere tante cose insieme e dentro alla pienezza del proprio gesto deve mettere in egual misura la sofferenza fisica, la dedizione dello studio e la noncuranza del cuore.
In Germania, quando ero piccola, nello sport non cercavo gloria, o sogni di grandezza. Io cercavo contesti, cercavo emozioni.
Cercavo qualcosa che avesse il potere di coinvolgermi dal punto di vista sociale.
La ginnastica artistica, il nuoto: nessun tentativo era riuscito a diventare un esigenza, nessuno sport un bisogno, e quando finalmente sono salita in una canoa, mai avrei pensato che non ne sarei più scesa.
Mia sorella maggiore è come se fosse una gemella, per me, e anche se era nata un anno prima, frequentavamo lo stesso anno scolastico, lei nella scuola del quartiere, io in un istituto del centro città.
Lei era un faro, una salvezza, mentre io invece ero spericolata e combinavo tantissimi guai. Così a 11 anni, quando le proposero una lezione di prova, la seguii immediatamente e senza esitare, perché dove andava lei, andavo anch’io.
Cadi, svuota la barca e riparti.
Ero la peggiore tra tutte, pagaiavo tutta storta e puntualmente, ogni singola volta, cadevo in acqua. Avevo un fisico asciuttissimo, magro, direi addirittura mingherlino, e per stare al passo con gli altri faticavo il doppio di chiunque.
Affiancavo qualcuno più bravo di me e poi cercavo di tenere il ritmo, di battere a tempo, salvo poi sbilanciarmi, perdere l’equilibrio e ritrovarmi di nuovo a tirar fuori l’acqua dalla barca.
Mangia prega ama.
Cadi svuoti rientri, non c’è modo migliore, più diretto o più poetico per riassumere quello che ti piace: in pratica quella cosa che si chiama vita.
Sbagli, fai pace con te stessa, e poi riparti.
E allora, la bambina gracile e scarsetta che ero, ha subito mostrato le due doti che l’avrebbero aiutata a diventare adulta, e poi anche a diventare grande, che sono due cose molto diverse tra loro.
Ero cocciuta.
E sapevo farmi bastare quello che avevo. Sempre.
Se hai quattro pomodori e due foglie di basilico, e te le fai bastare, e sei felice di avere proprio quei pomodori e quel basilico, metterai in tavola un gran bel piatto.
Fin dai miei esordi, fin da piccola, queste due caratteristiche sono state parte di me, e mi hanno permesso di far emergere il talento che avevo.
Perché il talento non è soltanto un dono, ma è una grande conquista, umana prima che sportiva, costruita sulla consapevolezza, sulla fatica e sul dispiacere della sconfitta.
I mesi passavano ed io diventavo sempre più brava, sempre più performante.
Si allargavano le spalle, crescevo in altezza, mettevo su muscoli e iniziavo a capire le dinamiche giuste per mantenere asciutta la mia canoa.
Poi sono diventata adulta, e, senza preavviso, l’andare veloce è diventata una colpa agli occhi dei miei compagni.
“Se vai più forte dei ragazzi non puoi essere una vera ragazza.”
Semplice.
Talmente semplice che era più facile crederci piuttosto che provare a raccontare chi fossi per davvero. Colpevole fino a prova contraria, come la strega sul rogo, non riuscivo più a scendere a compromessi col mio essere donna, e da qualunque lato la guardassi a uscire sconfitta ero soltanto io.
Se vincevo, avevano ragione loro.
Se perdevo, non avevo fatto abbastanza.
Mi sarei potuta svegliare nel cuore della notte, buttare in acqua e fare un tempo da finale olimpica, ma poi in gara, alla luce del giorno, sotto agli occhi di tutti, qualcosa si inceppava e per arrivare al traguardo ci mettevo molti secondi in più.
Potere della mente, potere della folla.
Folla che è fatta di persone, grazie al cielo, persone reali, e quando le prendi una per una sanno anche stupirti e cambiare la tua prospettiva sulla cose.
Il mio dilemma si è spento quando ho incontrato mio marito.
Bella per lui sono diventata bella anche per me, e bella per tutti, perché tutti eravamo noi due. L’amore salva e, nei sintomi, ho risolto le mie preoccupazioni.
Più tardi, diventando grande, ho scoperto che oltre ai sintomi e alle cause, ci sono anche le scorie radioattive, i resti silenti di quello per cui hai sofferto, e che per eliminarli del tutto potrebbe non bastarti una vita intera.
Nel frattempo, comunque, mentre tutto questo si realizzava dentro la mia testa, al di fuori di essa avevo iniziato il mio incredibile percorso olimpico, che avrebbe scandito i ritmi della mia esistenza per circa trentanni.
Ai Giochi di Los Angeles 1984, in un Mondo ancora diviso a metà dalla Cortina di Ferro, senza i Paesi del blocco sovietico, avevo vinto un’inattesa medaglia di bronzo, sotto la bandiera tedesca, stupendo me stessa prima che tutti gli altri.
Di quell’edizione ricordo la sana incoscienza con cui l’affrontai.
Non ero affatto il cavallo di punta della nostra spedizione e quel podio arrivò con una tale naturalezza da cogliermi di sorpresa.
In conseguenza a quel risultato mi ritrovai in un tourbillon senza precedenti, che cambiò per sempre tutto quello che mi circondava. Di colpo avevo l’appoggio della federazione, supporti economici, premi, ed ero diventata la punta di diamante del movimento intero. Negli anni che separavano Los Angeles da Seul, che erano anche esattamente quelli in cui cercavo di fare pace con me stessa e con la mia femminilità, ho completamente perso la passione per la canoa.
Andata.
Sparita.
Mi sarei persino potuta ritirare lì, dopo i Giochi coreani, chiusi lontana dalle migliori e svuotata dentro, tanto nei muscoli quanto nell’anima.
E invece ho continuato, ho continuato per più di due decenni, da donna sposata e difendendo i colori di un altro Paese, raggiungendo risultati incredibili e raccogliendo altre quattro medaglie olimpiche.
Ho continuato così a lungo da diventare la donna con più presenze olimpiche nella storia dello sport, in una disciplina di fatica e di sacrificio, a cui mi sono approcciata solo per seguire le orme di mia sorella, e nella quale, all’inizio, ero un disastro.
Ho vissuto otto edizioni dei Giochi, vedendo sotto ai miei occhi tutte le trasformazioni della nostra società. Siamo passati dal dilettantismo al professionismo più sfrenato.
Dalle nazioni all’individuo.
Dalla programmazione dello Stato alla creatività e alla fantasia.
Ho visto le Olimpiadi intercettare il futuro e, in quanto simbolo di quello che siamo e di quello che vogliamo essere, anticiparne delle pagine intere, inserendosi con grazia nel flussi della modernità.
Ho gareggiato angosciata dai dubbi sportivi e personali, e ho gareggiato come madre felice, a Sidney, con mio figlio e mio marito poco distanti, primi a festeggiare un oro perfetto e bellissimo, arrivato come naturale conseguenza di un percorso immacolato.
Ho battuto le favorite proibitive e poi perso da un’outsider sconosciuta, in finale a Pechino 2008. E mentre una nazione intera si mangiava le mani per quei 4 centesimi, io sono salita sul podio esultante, per dire che si può anche “vincere” un argento, per mandare un messaggio consapevole e far capire a tutti che perché qualcuno vinca serve che in tanti abbiano accettato la possibilità di perdere.
Non sono più mingherlina, né pasticciona, ma continuerò ad essere cocciuta, a farmi bastare quello che ho, e a ripensare al mio viaggio come a qualcosa di unico.
Perché l’apprendimento è un processo complesso, che funziona per epifanie, e che attraverso lo sport può vivere un infinito ciclo di vite.
Cadi svuoti rientri.
Non cercavo la gloria, ma l’ho trovata lo stesso.
Non cercavo l’amore, ma per fortuna, lui ha trovato me.