Non so cosa sarebbe stata la mia vita senza il football.
Non so cosa sarei stato io, senza il football.
Quando siamo arrivati in Italia era tutto così difficile.
La lingua.
La cultura.
Il mio essere timido, che non è mai cambiato, fin da quando ero bambino.
E il football è stato ciò a cui mi sono attaccato, con tutte le mie forze, e che mi ha permesso di trovare un posto nel nuovo Mondo.
Un posto comodo, dove essere chi sono davvero.
Ci è voluto un po’.
Non è successo velocemente, anche perché ho sempre avuto dei tempi tutti miei per fare le cose. Anche le cose che mi piacevano.
In casa lo sport è stato importante fin da subito, come una seconda lingua che tutti capivano al volo, senza sforzo.
Sia la mamma che il papà sono stati atleti, atleti veri.
Atleti che hanno sfiorato un’Olimpiade.
Nei 200 metri, lei.
Nei 400 metri, lui.
La pista era la naturale conseguenza del loro essere genitori, dell’essere maestri.
Della volontà di insegnarci qualcosa, di trasmetterlo.
Ci portavano spesso ad allenarci con loro, e correre era parte delle mie giornate, della mia identità. Parte del mio DNA.
Esattamente come ora.
Non che prendessi troppo sul serio la pista, quello no.
A me piacevano gli sport di squadra, mi piacevano i giochi.
Giochi come il calcio, come il rugby.
© Luca Paglicci Seamen
Anche se in Spagna non è popolare quanto il calcio, alla fine ho scelto il rugby, perché in quello spogliatoio si formavano le amicizie più vere, quelle più trasparenti. Quelle che poi sarebbero rimaste.
Ogni volta che saltava fuori la possibilità di provare qualcosa di nuovo, all’inizio io mi nascondevo. Spingermi a provare qualcosa per la prima volta era sempre molto complicato.
Ero timido, un po’ impaurito dagli altri, e dovevano essere i miei genitori a convincermi che valesse la pena provare.
Andava sempre così: partivo per il primo allenamento triste e preoccupato, e poi, dopo un paio di settimane ero il più entusiasta della compagnia.
Quello che si allenava di più.
Quello che non voleva più tornare a casa.
Il mio modo di essere, i miei tempi, si sono ripresentati anche quando ci siamo trasferiti in Italia, dove non conoscevo nessuno e dove ho dovuto ricominciare da capo, come tutta la mia famiglia.
Ed è qui che il destino ha riallacciato fili che quasi mi ero dimenticato di avere dentro.
© Luca Paglicci Seamen
Papà ha trascorso qualche anno negli States, dove, oltre all’atletica, si è cimentato anche nel football americano.
Il suo meglio lo ha dato in pista, questo è evidente, ma i principi base di quel gioco gli sono rimasti, come anche la passione per la NFL.
Così, quando ero piccolo, in casa capitava di vedere qualche partita in televisione, perché lui cercava di seguire la stagione regolare e di restare aggiornato sul campionato.
Ad essere sincero, però, a me, quel gioco lì non prendeva granché.
Troppo complicato.
Troppe pause.
Troppe interruzioni.
Molti anni più tardi, appena arrivati a Milano, uno dei primi amici che si è fatto mio fratello giocava a football.
Così lui ha iniziato a frequentare il campo, e quando lui cominciava a fare qualcosa, voleva dire che, prima o poi, sarebbe toccato anche a me.
Come sempre mi ci è voluto del tempo per buttarmi.
Il caschetto me lo hanno quasi messo in testa a forza, i miei genitori.
Ma quando ho trovato il coraggio di provare, tutto è cambiato.
Oggi non saprei immaginare la mia vita senza il football, senza i Seamen.
© Luca Paglicci Seamen
Mi sono innamorato perché questo è lo sport di squadra per eccellenza, nella sua forma più cruda ed essenziale, pur essendo complicato come qualsiasi battaglia.
È un gioco di estremi, dove devi saper fare benissimo una cosa, e devi farla all’infinito, sempre nello stesso modo, ma dove dipendi comunque dagli altri.
Dall’esecuzione.
Dal dettaglio.
Sembra come di vedere un’enorme orchestra suonare uno spartito lungo cento yard, che se lo metti in verticale assomiglia proprio a un pentagramma.
È precisione estrema, quasi maniacale.
Ma da applicare al gioco con la giusta adrenalina, con un senso di urgenza, di aggressione verso l’avversario, verso il campo, verso la giocata stessa.
Come wide receiver passi la partita a correre tracce di 10, 15, 20 metri, sempre alla velocità massimale, sempre con la tensione mentale di essere l’uomo che riceverà il pallone, quello che farà la giocata.
Anche se poi, in realtà, non puoi sapere quando e se lo riceverai davvero.
È un gioco di fede, in cui devi credere nella qualità del lavoro degli altri, e in cui non puoi vacillare mai.
Perché se vacilli, allora, viene meno la qualità del tuo, di lavoro, e il castello crolla per intero, non certo un pezzo alla volta.
Uno sport in cui ogni singola azione può portare alla giocata vincente, sia che la palla ce l’abbia tu, sia che ce l’abbiano gli altri.
Ti porta al limite sempre.
Ti obbliga a esplorare il confine dei tuoi mezzi, mentali e fisici, in ogni singolo istante. Ti rende nudo, con tutti i tuoi limiti e le tue qualità.
E niente unisce le persone come la nudità, come il riconoscersi uguali e dipendenti in mezzo agli altri.
Ormai sono grande, e quindi temo che non cambierò più.
Mi ci vorrà sempre più tempo degli altri per prendere coraggio e lanciarmi a fare cose nuove. Mi ci vorrà sempre una spinta speciale, magari da parte di chi mi conosce meglio di tutti.
Una cosa, però, l’ho capita, e l’ho capita da solo: che lo sport vale sempre la pena, a qualsiasi livello.
E che bisogna continuare a cercare, finché non si trova quello che ti piace davvero.
Perché soltanto quello ha il potere di farti sentire sempre a casa.
Sempre al posto giusto.
La gente che non lo ha trovato, o non lo ha neppure cercato non può saperlo.
Ma quelli che lo hanno trovato vivono una vita completamente diversa.
Una vita bella.