Ho cominciato nel club del mio paese; ci vivevano 200 persone.
Un albergo,
una scuola,
un negozio,
un incrocio,
ma ovviamente una squadra di rugby.
Quella non poteva mancare.
Non poteva, a prescindere dalla grandezza della regione.
A prescindere dal numero degli abitanti, nella zona in cui sei nato, in Nuova Zelanda una squadra di rugby vicina a te la trovi sempre.
E la provincia di Taranaki, dove si trova Kaponga, il posto dove sono cresciuto, chiaramente non fa eccezione.
Sono cresciuto in una fattoria, I was a farmer.
Tutti quanti lo eravamo: era l'attività di famiglia, il lascito di un sapere antico, da tramandarci una generazione dopo l'altra.
Quello che la terra lascia dietro di sé, per chi resta, è un'eredità unica nel suo genere, che ti regala molto ma che ti toglie altrettanto.
Ti toglie le vacanze e le domeniche libere, ti toglie i giorni di malattia e le serate in cui tirar tardi con gli amici.
Ma ti regala molte albe da guardare in silenzio, ti regala il rispetto per la fatica, e la possibilità di condividere il lavoro quotidiano con i tuoi famigliari.
Poche cose uniscono tra di loro le persone quanto il lavoro condiviso.
Più di ogni altra cosa però quel tipo di lavoro ti regala l'obbligo di fare sacrifici per le cose che ti piacciono.
Finendo poi con il fartele piacere ancora di più.
Il rugby era la mia passione, il mio divertimento, ma allo stesso tempo era infinitamente più importante di qualunque hobby avrei mai potuto aver voglia di coltivare.
E lo era perchè costava fatica. Ogni giorno andare ad allenarmi costava fatica.
Costava fatica perchè quando arrivava il momento di prendere a calci la palla, il sole, lo stesso che avevo visto sorgere la mattina, era sempre già abbondantemente tramontato.
Ed io ero stanco morto, distrutto dal lavoro.
Mai abbastanza per non allenarmi però.
Questo era il combustibile principale della nostra volontà: la consapevolezza che sarei anche potuto non andare al campo, ma che volevo farlo.
Non ho mai fatto una seduta di sala pesi in tutta la mia carriera: non ce n'era il tempo.
Non eravamo professionisti: se al campo non ci andavo nessuno telefonava a casa per sapere dov'ero, nessuno si lamentava e nessuno mi chiedeva spiegazioni.
Ma al campo ci andavo comunque sempre, e come me tutti gli altri.
Perchè quello era il rugby.
Quella era la nostra club house.
E quella era la squadra della nostra città.
A quei tempi non erano le società a selezionare i giocatori, ma i giocatori a dare corpo e anima alle squadre, scegliendole per viverci dentro.
Nel 1987 ci fu la prima Coppa del Mondo.
Per chi ancora non c'era potrà essere difficile da credere ma prima di quella data semplicemente non si disputava.
Sembra strano pensando all'evento gigantesco che è ora, ma non c'era e basta.
L'edizione numero uno quindi si tenne in Nuova Zelanda ed Australia e per tutto il nostro Paese ospitarla rappresentava qualcosa di fortemente primordiale.
Qualcosa di necessario e bellissimo.
La naturale messa in palcoscenico del nostro amore per il gioco puro e semplice. Pulito e passionale.
Tutti vogliono essere un All Black.
Il rugby è il nostro gioco, quello che riempie le menti e le mani dei bambini, quello per il quale vai ad allenarti la sera tardi.
È ciò per cui il Mondo ci conosce e quell'evento era un momento di profonda comunione per tutta la nostra gente.
Passammo un mese in tour per la Nazione, cercando di entrare in contatto con il maggior numero possibile di persone.
Incontri, interviste, allenamenti, viaggi: volevamo toccare con mano il Paese intero, per renderlo parte di ciò che stavamo facendo, per avere in cambio le aspettative di tutti da trasformare in energia.
Tutti, in Nuova Zelanda, hanno sempre un'opinione sulla squadra e se ce l'avevano anche allora che le informazioni si ottenevano solo dai quotidiani e dai notiziari in televisione, figuratevi oggi.
La mia preoccupazione principale però era la fattoria di famiglia, per la Coppa mi sarei assentato da casa diverse settimane e le mie braccia andavano sostituite adeguatamente per poter andare avanti.
Che agli animali del rugby interessa poco, persino in Nuova Zelanda.
Il senso di appartenenza nei confronti di quella squadra era tale che quando il capitano, Andy Dalton, si infortunò a pochi giorni dall'esordio decise di rimanere con la squadra per tutto il torneo, semplicemente supportando gli altri, invece che tornare al lavoro a casa.
Ancora oggi ho vivo il ricordo della mattina in cui venni svegliato dalle sue touche, che lanciava da solo contro una siepe per allenarsi quando ancora tutti dormivano.
Perso il suo Mondiale, rimase con noi, standosene in silenzio durante i discorsi di chi aveva preso il suo posto nel ruolo di capitano, perché in fondo quello era il nostro Mondiale.
Era nostro anche per chi aveva perso il proprio.
E lo fu fino in fondo.
Neppure quando ho iniziato ad allenare, il rugby è stato immediatamente una professione per me e di questo sono enormemente grato.
Prima di sedermi sulle panchine importanti.
Prima di gestire gruppi di 50 o più professionisti.
Prima di competere per i risultati più importanti aiutato da alcuni tra i migliori colleghi del Mondo.
Prima di tutto questo ho allenato la mia prima squadra.
E per quella squadra ho fatto di tutto: il tassista, l'allenatore, lo psicologo, lo spazzino.
Ho servito le birre al bancone della club house dopo le partite e fatto da consulente matrimoniale per i ragazzi più giovani.
Insegnato le basi dei fondamentali e lavato le divise sporche di fango.
E di questo percorso sono grato sul serio.
Perchè mi ha permesso di imparare quanta dedizione e attenzione richieda ognuna di queste mansioni.
Mi ha fatto capire quanto il benessere di tutti sia fondamentale all'interno di un'organizzazione numerosa.
Mi ha permesso di potermi confrontare con qualunque collaboratore, in qualsiasi squadra, sapendo perfettamente di cosa stesse parlando.
Tutto questo mi ha insegnato che per diventare campione del Mondo, con la maglia che tutti sognano, per passare lo straccio a terra e pulire lo spogliatoio dopo un allenamento, e per tutto quello che si trova in mezzo a questi due estremi, una cosa serve sempre averla: la voglia di farlo.