Il rugby è liberatorio.
E già questo basterebbe ad esprimere tutto il mio pensiero, a spiegarlo completamente.
Includere il gioco intero in uno slogan personale: il rugby è liberatorio.
Lo era soprattutto quand’ero un bambino perché mi permetteva di fare esattamente quello che mi andava di fare e di trovare un rifugio sicuro per il mio carattere vivace e combattivo.
Prima avevo provato con il basket, con il nuoto, con altri sport, ma quando tornavo a casa la sera, dopo gli allenamenti, ero più scalmanato di quando ero uscito dalla porta, come se la mia energia si ricaricasse nel fare attività piuttosto che estinguersi.
Solo il rugby riusciva a soddisfarmi, a svuotarmi, a farmi sentire davvero la gioia della fatica.
La palla ovale, se la provi, ti prende dritta allo stomaco e ti resta dentro perché il rugby è costruito a immagine e somiglianza della vita stessa.
Inizialmente, quando sei un bambino alle prime armi, ti dà delle regole semplici e imprescindibili, all’interno delle quali puoi esprimere liberamente la tua unicità.
Poi, crescendo, il gioco, che è un gioco fisico e di contatto, si struttura, le norme da rispettare si moltiplicano in una crescita esponenziale e trasformano quello che puoi fare, o non fare, sul campo.
Proprio come accade ad un bambino che diventa un adolescente e poi un uomo.
Per stare in mezzo agli altri si parte da pochi concetti universali: il rispetto, l’onestà, il sostegno reciproco, e tanto basta a recintare il tuo perimetro.
Dentro ci puoi fare quel che vuoi.
Fuori non sei autorizzato ad andare.
Con il tempo però tutto si complica, le variabili aumentano, le competenze necessarie per convivere con tutti anche e quello che succede tra le persone si stratifica.
Per questo vita e rugby sono fratelli.
Le regole sono moltissime ma a quelle più complesse ci arrivi solo per gradi e dopo aver imparato quello che è davvero importante: inclusività, sacrificio e divertimento.
I principi cardine che non dovresti dimenticarti mai, in campo e fuori.
Quando sono diventato grande il rugby si è trasformato in un lavoro, ma non ha mai perso il suo carattere primordiale di sfida.
Il nostro è uno sport crudo, che non può essere mai spogliato del suo carico emotivo.
Il percorso di avvicinamento ad una partita, ad ogni singola partita, pesca a piene mani dalla retorica della battaglia, della lotta di trincea, ma si tratta di un aggiustamento necessario, senza il quale perderesti impercettibili grammi di cattiveria agonistica.
E di quelli non puoi davvero fare a meno.
È un po’ quello che accade, estremizzando, nella boxe.
Visualizzare l’avversario, identificarlo come un bersaglio, il nemico, è ciò che ti permette di mettere il tuo corpo a disposizione della causa fino a fargli toccarne i limiti tecnici e fisici che ha.
Nove volte su dieci la squadra che vince l’impatto vince anche la partita.
Vincere l’impatto è la somma finale di moltissimi fattori psicologici, fisici, mentali e lo sviluppo intero di una partita nasce proprio dai primi approcci.
Anche in quest’epoca dove tutto è controllato e scoutizzato, dove la prestazione viene monitorata dai gps, dove la tecnica viene allenata con strumenti avanzati, dove conosciamo ogni proposta tattica dell’avversario, il primo impatto mette comunque un timbro sulla partita.
Il primo placcaggio.
La prima touche.
La prima mischia.
Indirizzano la partita, la definiscono.
E dipendono dal senso d’urgenza che si riesce a sentire addosso quando l’arbitro dà il fischio d’inizio.
La prima linea è, in tutto questo, trincea della trincea, avamposto principale: non si chiama mica prima linea per niente.
A volte sei la testa d’ariete che serve a tirar giù un cancello, altre volte il timoniere di una barca potente da tenere sempre in assetto preciso.
La mischia chiusa è il perfetto riassunto della vita degli avanti perché ne bastano un paio che spingono nella direzione sbagliata, o che non hanno più la forza per farlo, e tutto crolla. Crolla sulle spalle delle prime linee che finiscono schiacciate, tutte e sei, con i restanti dieci a far da fermacarte.
Quando i piloni e i tallonatori si rialzano però sorridono tutti. Sempre.
Perché non importa se è stata la tua mischia o la loro a cedere, tu vuoi comunque condizionare gli avversari.
Vuoi far credere loro di non aver sofferto l’urto in alcun modo.
Vuoi far capire ai compagni alle tue spalle che l’impatto è stato buono, che: adesso li tiriamo giù.
Lo vedi già dal portamento un uomo di prima linea, esibisce il mento orgogliosamente, anche quando non ha più benzina, anzi soprattutto quando è in riserva.
Sono ruoli unici, difficili da raccontare e persino da arbitrare ma che hanno il compito di sorreggere la mischia intera, che a sua volta ha il compito di sorreggere la squadra.
Ci sono arrivato per gradi ad essere tallonatore, rinculando a poco a poco dalla terza linea. Non è stato esattamente amore a prima vista, ma ho imparato nel tempo ad apprezzare la partita nella partita con le prime linee avversarie.
Quando ho deciso di intraprendere questa strada la mia prima tappa è stata Calvisano, perché lì giocavano i migliori e io volevo imparare da loro.
C’erano Castrogiovanni, Perugini, De Carli, Intoppa.
Nel vocabolario dei ventenni (prima che ci inserissero petaloso, visto che nel rugby di petaloso c’è ben poco) opportunità e rischio sono sinonimi.
Perché devi mettere qualcosa di tuo, personale, sul piatto per provare a competere con i più bravi, ma se qualcosa va storto difficilmente avrai un’altra chance allo stesso medesimo livello.
Andare in mischia al fianco di quella generazione significava di più che imparare ogni giorno qualcosa: voleva dire sentirsi al sicuro perché sapevi che non avresti sofferto.
Potevi anche andare in difficoltà ma non avresti sofferto perché loro, pur di condizionare il gioco, avrebbero comunque sfoderato un sorriso sornione indirizzato agli avversari, e questo cambia la confidenza e la serenità di tutta la squadra.
Non è certo un caso che alcuni di loro siano nel club dei 100 caps nonostante abbiano giocato in un ruolo tanto logorante, e altri ancora lo avrebbero meritato. Se non sei una grande persona, capace di soffrire, è difficile avere continuità ad alti livelli.
Sapere di essere oltre i cento caps, al fianco di gente del genere, è davvero gratificante.
Quello che più di tutto mi hanno insegnato è giocare con senso d’urgenza.
Un desiderio di competere talmente forte da diventare un bisogno quotidiano.
Il senso d’urgenza lo butti sopra la tecnica, sopra lo scuoting e sopra l’allenamento.
È un di più. Un di più che però fa la differenza.
Mi ricordo la mia prima partita da titolare in maglia azzurra, per esempio.
Era la Coppa del Mondo del 2007 e fino ad allora io avevo fatto presenza solo negli ultimi spezzoni di alcune partite.
Mi sentivo bruciare dentro per questo. Fremevo.
Chiedevo e mi chiedevo se fossi in grado di giocare più dei 10 minuti finali a quel livello.
Avevo l’urgenza di andare in campo e infatti ancora oggi, se ci ripenso, mi sento addosso distintamente le sensazioni di quella giornata. Facemmo una meta di mischia partendo da una touche, con un carrettino. Quella partita era anche la centesima di una leggenda come Troncon e dopo quel drive andato a buon fine era venuto da me a darmi uno schiaffo sulla testa.
Quelli erano stati i suoi complimenti.
Ed erano stati magnifici.
La prima linea, la trincea, è un mondo a sé, difficile da comprendere per chi sta fuori ma capace di determinare molti aspetti del gioco come in un effetto domino, che può partire da un semplice sorriso dopo una mischia andata male e poi finire in un’azione corale.
Gli inglesi in questo sono dei maestri e quando ho giocato là da loro ho potuto toccare con mano un club duro e severo come il Leicester, che pone attenzione massima anche su quei dettagli apparentemente impossibili da monitorare, sugli intangibles.
Gli intangibles non si possono contare, sommare, spiegare.
Ma sono l’essenza del gioco.
Sono l’insieme di tutto quello che non può essere racchiuso in una categoria statistica, ma che ha un impatto comunque tangibile sul gioco.
La sala pesi non aveva finestre verso l’esterno ed era sovrastata da un cartellone che recitava: benvenuti al lavoro. Le scarpe da gioco potevano esser solo di colore nero e quando facevi le ripetute in allenamento ogni volta che chiedevi quante ne mancassero o che appoggiavi le mani sulle ginocchia, il coach ne aumentava il numero.
Questo va oltre la tattica, va oltre la tecnica e diventa attitudine, alimenta il senso di urgenza che tutto l’ambiente ti riversa addosso, obbligandoti ad andare oltre quello che sai già di saper fare. Sempre, in ogni azione, in ogni impatto.
Lo sport ha senza dubbio la memoria corta ma anche lo sguardo acuto e quando io butto l’occhio avanti, verso il futuro, mi scordo di ciò che è stato conquistato in precedenza.
Il risultato condiziona sempre il giudizio, soprattutto nel rugby, dove non esistono i fattori casuali, dove non puoi giocare male e fare un gol un po’ di culo da calcio d’angolo.
Il risultato che non arriva oggi mi pesa più che mai, perché so che ogni partita con questa maglia per me potrebbe essere l’ultima e questo mi ancora all’urgenza di vincere e renderla magnifica.
Quello che vorrei da qui alla fine dei miei caps è tornare aldilà del solo essere competitivi.
È sentire che tutta l’orchestra ha suonato all’unisono, che ognuno è andato oltre la semplice lettura corretta dello spartito, e che in ogni nota, ogni singola nota, ha espresso compiutamente la voglia di risuonare più alta di quella altrui.