Tu sei arrogante.
Tu sei presuntuoso!
L'ho sentito spesso, durante tutta la mia carriera.
Ma se pensi di offendere me parlando in questi termini del mio carattere ti sbagli: la cosa non mi ferisce affatto.
E come potrebbe farlo?
So di avere carattere, di averlo sempre avuto.
So di non esser mai stato uno yes man, non riesco neppure ad immaginare cosa significhi esserlo.
Perché, semplicemente, non ci credo.
Non credo a chi non fa domande.
Non credo a chi non dubita mai di sé e degli altri.
Non credo a chi cerca di farsi piccolo piccolo per ingombrare il minor spazio possibile.
Quando sono arrivato a Padova, giovanissimo, venni acquistato letteralmente per 10 palloni e qualche cassa d'acqua dalla mia precedente società.
La strada che avevo da percorrere sotto le scarpe di gomma era lunghissima, fatta di avvallamenti, piena di tombini aperti e colate fresche di cemento.
E se mi voltavo per guardarmi indietro ancora vedevo la porta di casa vicina, al punto che allungando la mano potevo toccarne la rassicurante maniglia.
Rimanere sulla strada maestra in questo tipo di percorso è tutt'altro che scontato, e non lo è neppure resistere ed andare avanti senza esitare.
© MICHELE BENDA
Eppure il mio carattere era già quello di ora, era già forte e curioso.
Che non sono certo in antitesi, anzi.
Certo è che solo gli stupidi non cambiano mai idea.
Solo gli stupidi non provano a smussare i propri angoli più acuti.
Quelli contro i quali qualcuno a te vicino ha sbattuto il mignolo e s'è fatto male.
L'approccio al lavoro cambia a 25 anni rispetto che a 20 o a 30.
E poi a 40 cambia di nuovo.
Ma il seme che coltivi dentro, la materia di cui sei fatto, quella no.
È come avere un sacchetto di farina tra le mani, avercelo da sempre.
Probabilmente inizierai col farci del semplice pane, ma se ci lavori, se ci lavori davvero, prima o poi finirai con l'impastare una pizza o col produrre della pasta fresca.
Poi magari alla fine ci saprai fare anche le torte, quelle grosse, quelle sulle quali di solito si mettono le "ciliegine-che-mancavano-solo-quelle".
Buone le ciliegie ma del fornaio non parla quasi mai nessuno.
Io ho discusso con Julio Velasco.
Una volta ho persino pensato: "questo è matto!".
Non sono in molti quelli che, giovanissimi davanti a lui, avrebbero argomentato le proprie opinioni senza pendere dalle sue labbra a prescindere dal contenuto del dialogo.
Eppure la forma della mia testa me l'ha impedito.
Come me lo impedirebbe oggi.
E come, probabilmente, me lo impedirà sempre.
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Qualche tempo dopo essere stato barattato per i palloni di cui sopra fui acquistato da Modena, che rappresentava per tutto il movimento l'eccellenza assoluta.
Per una cifra ragguardevole, tra l'altro.
Ma nel mio anno d'esordio con quella maglia lì non sono stato il primo palleggiatore.
Quello era Dall'Olio, ed io avevo anche chiesto di dormirci in camera insieme per provare ad imparare il più possibile da lui. Anche quando dormiva.
Ed in quella stagione non sono stato neppure il secondo palleggiatore.
Ero il terzo e non giocavo praticamente mai.
Vincemmo lo scudetto.
E, dopo averlo vinto, ci presentammo ad Arona a giocare la Final four di Coppa Italia.
Mi aspettavo di giocare almeno lì, ma non lo feci.
Qualche ora dopo, passeggiando sulle rive del lago Julio mi disse:
Lorenzo abbiamo comprato Fabio Gullo per la prossima stagione, per cui a te la scelta: o vai in prestito o decidi di fidarti di me, ti spostiamo di ruolo e nel giro di due anni sarai in Nazionale
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Mi è scattata una molla, il desiderio profondo di testarmi fino ai limiti, di scavalcarli.
Sollevarli con le mani e portarli più in là.
Ma il bottone che mi ha permesso di azionare questo meccanismo di costante sfida a me stesso, partito quel giorno lì, ce lo avevo già dentro.
Nascosto in bella mostra: the elephant in the room.
Essere titolare di un carattere forte e curioso a volte è come avere un candelotto di dinamite da maneggiare:
in molti si sentiranno minacciati, tu devi obbligarti alla massima cura di ogni particolare e c'è sempre il rischio concreto di far esplodere qualcosa.
Ma se sei fedele alle tue regole con costanza, se ti chiedi, ed ugualmente fai con gli altri, di abolire il compromesso stanco e conservativo allora puoi abbattere tutti i muri.
Quelli della diffidenza, quelli dei traguardi, quelli dei record.
Chiedersi quotidianamente il 100 percento non significa quasi mai mettere in mostra il massimo del proprio valore assoluto.
Significa investire tutto ciò che hai in quel preciso istante senza remore, significa correre o saltare finché ne hai per quel giorno, per quelle ore.
Perché quando non ne hai più, se sei stato sincero e davvero non ne hai più, beh in quel caso non puoi fare altro che fermarti.
Andrà bene lo stesso.
Mettere su base continuativa il proprio meglio del momento a servizio del lavoro di squadra significa pretenderlo dagli altri con altrettanta ferocia sportiva.
Significa non permettere ai compagni di sedersi su ciò che fanno senza stressarsi.
Significa non smettere mai di fare domande all'allenatore; per capire, per crescere, non per puro spirito critico.
Non perché ci si sente investiti dell'autorità di una qualche licenza polemica perché si è forti, ma si è forti proprio perché non si smette non di indagare, di esplorare.
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Non dev'essere stato facile stare con me in campo, e non è semplice lavorare con me oggi.
Se mettevo a terra con successo 99 palloni su 100 io pensavo solo a quello che era andato fuori.
Non è retorica, neppure un po'.
Era ossessione, quel pallone.
Mentre gli altri 99 erano conseguenza.
Conseguenza pura e semplice.
Conseguenza del lavoro, del dettaglio e della fatica.
E così oggi, se con il mio staff sbagliamo un piccolo, insignificante, approccio a qualcosa lo prendiamo e lo mettiamo sotto il riflettore, al microscopio.
Lo trasformiamo in un errore significante, vogliamo sentirci scomodi dentro quell'errore e non lo commetteremo più.
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In Italia, dove lo straniero è alternativamente un malandrino o un eroe, dove xenofilia e xenofobia oscillano perpetuamente sopra un'altalena che va avanti e indietro senza stare mai in equilibrio, io ho spesso percepito il riconoscimento di Miglior Giocatore del XX Secolo come un limite.
L'espressione di un giudizio.
È stato a volte il pretesto per affibbiarmi il ruolo del presuntuoso o del raccomandato.
Sulla mia pagina di wikipedia quel premio è la prima cosa che compare scritta.
La voce palmares è giù, un po' più in basso, eppure è stata quella a rendere possibile il riconoscimento, ed è stato il mio carattere perfezionista a rimpolpare la bacheca dei trofei anno dopo anno.
Un carattere esigente e scomodo.
Un carattere che mi ha fatto sempre sentire soddisfatto di sentirmi insoddisfatto.
Un carattere che quando avevo già raggiunto il massimo delle vittorie e dei riconoscimenti mi ha obbligato a prendere in mano le mie tabelle e lavorare per superarmi.
Letteralmente superare il mio ultimo me:
quello della stagione scorsa o quello dell'ultima partita.
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Non credo che esistano scorciatoie, ma sono certo che il serbatoio delle motivazioni debba sempre essere riempito al massimo, senza eccezione alcuna.
Neppure l'eccezione di un giorno.
Come quando noleggi una macchina e devi riconsegnarla con il pieno: sulla via del ritorno finisci sempre col fermarti ad un distributore ogni 30 chilometri perchè non vuoi mai vedere l'indicatore scendere sotto il massimo che il serbatoio può contenere.
Neppure mezza tacca.
Quello dev'essere il rapporto con le tue aspettative, quelle che rifletti verso l'interno e non verso l'esterno.
Se lo farai finirai col pretenderlo anche dagli altri, da tutti gli altri.
E se lo facciamo tutti niente ci sarà mai precluso.