Lorenzo Borgomeo

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Il nostro non è uno sport.

È combattimento per soldi.

Chiunque provi ad abbellirlo, a imbavagliarlo, a cambiarlo, sta lottando da solo.

E ha già perso.

Ancestrale come il sesso: esiste da sempre ed esisterà per sempre, a prescindere dal contorno che si cerca di costruirgli intorno.

Perché quello che facciamo non è normale.

Non è normale, e mai lo sarà, ma se due tizi iniziano a menarsi nel parcheggio di un cinema, tutti si fermano a guardare.

Dai vecchi ai bambini: nessuno riesce a distogliere lo sguardo.

Perché ti fa schifo il sangue o perché speri che ne esca dal corpo di qualcuno.

Perché ti stai chiedendo se sia giusto fermarli o perché ti stai chiedendo se tu, al momento della verità, saresti davvero in grado di picchiare qualcuno.

Lorenzo Borgomeo

Quello che facciamo, quello io che ho fatto per tutta la vita, non è normale.

Ed è malsano cercare di farlo accettare per ciò che non è.

O raccontarlo per ciò che non è.

O viverlo per ciò che non è.

Quello che facciamo non è per tutti, e serve a colmare squilibri profondi.

Serve a riempire silenzi, serve a tenere sotto controllo il dolore.

Come una droga assunta a piccole dosi: mille scariche di adrenalina che ti tengono in vita, e che senza la gabbia, forse, cercheresti altrove.

E magari finiresti per trovarle attaccate ad un filotto di guai.

Non ho avuto un’infanzia difficile.

O spezzata.

Se chiudo gli occhi, il ricordo più vecchio che ho è di un bambino al mare con lo zio, sulla costa romagnola.

Macchinine, caramelle, bomboloni.

Coccole, attenzioni, sole.

Sono stato un bambino tranquillo, cresciuto in un contesto in cui lo studio era considerato importante, ma a cui lo studio non interessava per niente.

Lorenzo Borgomeo

Io pensavo soltanto a Bruce Lee e a Jean-Claude Van Damme.

Passavo ore e ore a guardare i film e poi correvo davanti allo specchio, per provare ad imitare i loro calci. Prima di internet, prima che la MMA fosse una prospettiva vera, quando esistevano soltanto i fenomeni e i brocchi.

La media borghesia non c’era.

“Io voglio fare Jean-Claude Van Damme!”

Sì, ma che lavoro è “Jean-Claude Van Damme?”

Eppure io volevo fare quello e per farlo dovevo trovare i modi di sostenerlo, non soltanto economicamente, quella era fantascienza, ma soprattutto a livello familiare, culturale, personale.

Quello era il mio centro, la mia unica certezza, e intorno dovevo costruirci una vita normale, la vita di quello che studiava e che giocava a pallone, di quello che gli altri avrebbero capito.

Ero me stesso a metà.

Ma forte com’ero, per un po’ è bastato.

Poi, a 27 anni, non è bastato più, e allora ho mollato tutto ciò che avevo, a partire dalla razionalità, e sono andato in America.

Non avere nulla più da perdere è incredibilmente liberatorio.

“In America per fare MMA”: una cosa talmente assurda da dire che mi fa ripensare alle mie motivazioni.

Mi sono sempre sentito il più pazzo di tutti, ma non come se fosse un merito, e neppure un vanto, ma come se fosse la sola via possibile.

È stato come se sapere di non poterlo fare bene, mi obbligasse allora a farlo all’estremo. Se non in maniera giusta, almeno lo faccio in maniera esagerata.

Non ignoreranno la follia, no?

Chi è così pazzo da ignorare un pazzo?

Non mi sono mai voluto tutelare, avevo un inesistente grado di protezione, come se la sfida alla morte fosse il mio solo mezzo per arrivare da qualche parte.

Se oggi, anche in un contesto come quello odierno, molto più aperto, dove la MMA è un sogno possibile, uno dei miei ragazzi mi chiedesse un parere sul fare quello che ho fatto io, gli direi di fare quel che vuole, ma che comunque non ci riuscirebbe mai.

I nostri erano tempi diversi, con molte meno tutele: all’esordio mi hanno messo sull’ottagono contro uno che aveva alle spalle più di 130 incontri.

Al limite della legalità.

Lorenzo Borgomeo

Prima di trasferirmi in pianta stabile negli Stati Uniti ero andato in Florida per fare un incontro, e cercare almeno di capire il livello.

Non conoscevo neppure le regole da cima a fondo.

Non sapevo nulla sull’avversario, e non avevo nessuna competenza di lotta a terra.

Quando cadevo mi rialzavo come lo avrebbe fatto un uomo qualunque che inciampa in un supermercato, senza la minima tecnica.

Ma ero talmente “dentro” il mio personaggio, che quell’incontro l’ho vinto.

Non augurerei mai a uno dei ragazzi che alleno di provare l’incertezza che ho provato io. L’instabilità.

Il senso di mancata appartenenza.

La rincorsa al rispetto per i propri sogni.

Il bisogno di tradurre chi sei, sempre e comunque.

Eppure è proprio in quegli elementi che ho imparato a conoscere me stesso, e ad accettare l’uomo che sono.

Lorenzo Borgomeo

Per anni ho ripetuto che non avrei mai accettato di fare il coach, perché quello “è solo uno che non ce l’ha fatta!”.
E adesso eccomi qui, un po’ col cellulare, come un promoter, e un po’ coi colpitori, come se non fossi mai sceso dall’ottagono.

Dalle 10.00 alle 22.00.

Weekend inclusi, lividi compresi.

Incazzature assicurate.

E non è che faccia meno male, perché sotto ogni sconfitta o sogno infranto di uno dei miei è come se ci finisse anche il mio naso, o il mio zigomo.

Sempre uguale.

Più di quando l’osso spezzato era soltanto il mio.

Ho fatto pace con la mia mortalità, e imparato che non c’è nulla di male ad essere un leader, anche se continuo a cercare le mie micro-dosi di adrenalina e l’equilibrio che non ho attraverso il dolore.

In fin dei conti, va bene così.

Perché il nostro non è uno sport, è combattimento per soldi.

E perché quello che facciamo non è normale, ed è malsano cercare di farlo accettare per ciò che non è.

Lorenzo Borgomeo / Contributor

Lorenzo Borgomeo