I tuffi sono come il golf, l’unico sport che me li ricorda, in qualche modo.
Certo, sono diversi.
Così diversi che è difficile persino immaginare il perché di questo accostamento.
Acqua contro erba.
Verdi spazi aperti contro trampolini sempre identici a loro stessi.
Gare lunghe giorni e Olimpiadi che si decidono in una singola frazione di secondo.
Eppure, a me, nelle cose che contano per davvero, quelle che fanno la differenza, sembrano discipline allo specchio.
I tempi, innanzitutto.
Alle grandi manifestazioni internazionali, come i Mondiali, per esempio, quando in piscina ci sono tantissimi atleti di tantissime nazioni diverse, puoi arrivare a fare un tuffo ogni 45, 50 minuti, e mantenere corpo e mente pronti a quello sforzo è un’impresa titanica.
E poi l’immediatezza del tuo turno, che dopo tanto aspettare si esaurisce nello spazio di uno swing, o di una rotazione, il tutto concedendoti unicamente minuscoli margini di errore.
Basta un gesto, un gesto soltanto, sbagliato di pochi centimetri per concludere definitivamente la tua gara.
È una sfida mentale, prima di esserlo dal punto di vista tecnico e fisico.
Non è il tempio degli impazienti, il trampolino.
Perché sul trampolino devi portare tutto ciò che hai imparato, ogni singola volta.
Ciò che hai imparato su te stesso, prima che sulla disciplina.
Io non ci sono arrivato subito, anzi, posso dire di aver iniziato piuttosto tardi con questo sport. Sono stato un casinista patentato e forse, per certi versi, lo sono ancora.
Figlio unico, ricordo quando mi infilai in bicicletta giù da una rampa di scale, in centro paese, e ne uscii dolorante come non mai.
Oppure quando finsi un attacco epilettico per far spaventare la nonna.
Nonna che per poco non ci lasciava le penne.
Rubavo le cose degli altri, saltavo, correvo.
Rompevo.
Un’iperattività che in qualche modo è rimasta, anche se mitigata dall’età, dall’esperienza, dal vivere in mezzo agli altri.
E un’iperattività che i miei genitori hanno sempre provato a direzionare sullo sport, come valvola di sfogo, come mezzo per permettermi di esprimere tutto quello che avevo dentro.
La lista è lunghissima, dall’atletica al karatè, dall’arrampicata al tennis, ma ha smesso di accrescersi quando poi ho scoperto i tuffi, e me ne sono immediatamente innamorato.
Li ho visti per la prima volta nella piscina dove nuotavo, ed era impossibile staccarmi dalla vetrate, dove mi appiccicavo come un pesce pulitore, per guardare i ragazzi e le ragazze più grandi di me lanciarsi nelle loro evoluzioni.
Ho cominciato a praticare a nove anni, un’età in cui qualcuno, oggi come oggi, compete già ad altissimo livello.
Da un certo punto di vista ne sono persino contento, perché mi ha permesso di vivere i primi anni con la leggerezza di chi neppure sognava in grande, ma aveva soltanto voglia di divertirsi.
E in certi sport, quelli in cui la perfezione tecnica è un’ossessione, è tutt’altro che banale. Ero scoordinato, goffo. Restavo in squadra soltanto per le amicizie, per i momenti passati insieme.
Mi ci sono voluti quasi cinque anni per diventare un atleta di buon livello, e non mi sono accorto quanto davvero potessi valere fino ai 20, fino alla prima convocazione in nazionale assoluta.
Poi è arrivato il COVID, ed è arrivato proprio mentre iniziavo a fare cose importanti. Mentre cominciavo a costruire qualcosa di cui andare veramente fieri.
Il COVID è stato un periodo drammatico per tutti.
E complicato per me.
La mia testa ha sempre sentito il bisogno di una forte programmazione.
Mi servono date.
Appuntamenti.
Programmi.
Sapere per cosa esattamente io mi stia allenando.
Quanto manca all’ora X.
Cosa mi resta da fare per arrivarci al meglio delle mie possibilità.
E nell’incertezza di mesi senza garanzia alcuna.
Senza il rifugio di un count down, di una competizione all’orizzonte.
Di una valvola di sfogo.
Ho imparato a conoscere i livelli della mia impazienza, e ad iniziare il percorso interiore necessario a limarli, a migliorarli.
Ho iniziato a diventare un atleta migliore.
Quando siamo ripartiti, tutto è cambiato, anche dal punto di vista dei risultati.
Sono cambiato io, prima di tutto il resto.
Ho lavorato sul rapporto con l’errore.
Ho iniziato a funzionare meglio.
Prima, sbagliare qualcosa poteva anche significare la fine della mia gara.
Ora so che vince chi sbaglia meno, e non chi performa meglio.
È una differenza sottile, ma sostanziale.
Sportivamente, l’obiettivo è Parigi.
E davvero non so se ci sarà un domani, dopo i Giochi.
Voglio dare tutto quello che ho, tirare una riga, guardarmi dentro e chiedermi se la dimensione del risultato mi è sufficiente per dire basta.
Per smettere a cuor leggero.
Sereno.
Contento di me.
Questa prospettiva di libertà mi aiuta.
Mi aiuta a tenere alte le motivazioni e a sentirmi fedele alla mia persona.
Ai miei spazi.
Perché il mestiere che faccio è la continua ricerca di una perfezione inesistente.
Che non si può afferrare e neppure sfiorare.
Ma solo ammirare.
Espressione di bellezza che ruba l’occhio, e che lo fa principalmente con tutto ciò che circonda il gesto tecnico.
A partire dal sorriso.
Il sorriso e la risata che è la sola emozione che non puoi fingere mai.
La sola emozione che non ho finto e non fingerò mai.
La sola cosa che è rimaste sempre uguale.