Antonio Stradivari a volte se ne andava in Val di Fiemme a scegliere gli abeti più pregiati per realizzare la tavola dei suoi strumenti; per il resto, come ad esempio i pezzi per il manico, legno dei balcani.
I suoi violini erano come complicatissimi puzzle a 2 milioni di pezzi.
Leggenda vuole che lui, in Val di Fiemme, si mettesse a fondo valle e che chiedesse di far rotolare giù i tronchi che riteneva più promettenti, in modo da sentire, immerso nel silenzio più totale, il suono del legno.
Così sceglieva i migliori.
Tante università dei giorni nostri hanno provato a studiare i materiali di quei violini, di quelle viole e violoncelli per capire il perché di tanta unicità.
Hanno tratto decine di conclusioni: è merito della vernice, no è merito della cenere, no dell’isolante naturale e così via.
Probabilmente hanno tutti ragione.
Ci sono cuore ed orecchio nella stessa misura in cui ci sono tecnica e studio dietro ogni opera del maestro.
Ognuno è un pezzo unico, incredibile compromesso tra amore e conoscenza, tra forma ed essenza.
Ecco io volo su uno Stradivari.
Non letteralmente ovvio.
Ma io sfido la gravità su un aliante Swift S-1, ed è più o meno la stessa cosa.
Il mio aliante è un pezzo d’arte volante, un quadro da museo che mi porto appresso per il mondo. È una macchina che vola senza il motore, frutto di anni di studio e ricerca, alla quale restano solo 24 sorelle in vita qua e là per il globo, e solo 21 di queste continuano a lasciare il suolo.
Ma allo stesso tempo è anche molto più di questo .
-Un oggetto così bello non può non avere un’anima-
Lo disse Valentino Rossi. Era il 2004, prima gara della stagione e lui aveva cavalcato per la prima volta la Yamaha.
Aveva corso un rischio a cambiare, ma alla prima uscita aveva raccolto subito una vittoria.
Era visibilmente innamorato della sua moto, e l’amore muove tutte le cose.
Io mi sento così a parlare del mio aliante.
Si chiama Leonardo in onore del suo precedente possessore, Leonardo Ambrogetti, scomparso mentre pilotava un aliante diverso e dal quale ho ereditato anche l’allenatore: Sandor Katona.
Il mio aliante è il non plus ultra di quanto si possa pilotare lassù nel cielo senza la spinta di un motore.
È stato costruito con gli obiettivi più pretenziosi possibili ed io, ancora oggi, che ho sincronizzato il mio battito cardiaco con lui, non sono in grado di affermare con assoluta certezza quali siano i limiti di quel fantastico mezzo.
Tutto sull’aliante è stato progettato con un solo scopo: volare.
Per questo lo considero il mezzo più puro in assoluto.
Puro e semplice.
Quando progetti un mezzo a motore devi rispondere a molteplici esigenze: un motore che raggiunga una certa velocità, uno spazio minimo entro il quale si riesca a decollare, e molto altro.
Ogni componente risponde ad una precisa esigenza.
Nell’aliante l’unica esigenza è il volo.
Fine.
Stop.
Lo devi trainare in quota, agganciandolo ad un aereo trainatore con delle corde.
Lo devi portare su, in una quota compresa tra i 1200 e i 1500, e lì, quando il biplano supera i 120 chilometri orari ti sganci.
E vai giù.
Semplice.
Tiri la leva gialla, ti sganci e inesorabilmente scendi velocissimo verso il suolo.
3, al massimo 4 minuti e sei a terra.
Si tratta si un mezzo senza compromesso, la sua meccanica è perfetta ed io lo so.
Per questo con lui non mi incazzo mai, anzi sento quasi di essere in dovere di non commettere imprecisioni alla guida, non solo per me stesso, ma anche per rendere giustizia alla sua strepitosa accuratezza.
Prima di optare definitivamente per l’aliante avevo portato in quota anche mezzi a motore, ma per quanto l’ebbrezza di sentire il rombo sia emozionante non ci trovavo lo stesso feeling, neanche lontanamente.
Sopra un aereo tu resti in quota e voli, e fai il giro della morte, e fai l’avvitamento perché sotto il sedile hai 300 cavalli che ti spingono.
Per guidarlo sembra di dover gestire i comandi di un’astronave, più o meno come ci si sente alla prima lezione di scuola guida.
Ma sopra l’aliante sei costretto a fonderti con il mezzo, a diventare una cosa sola.
È più un rapporto carnale che una lezione universitaria.
Certo, ha un’anima, ma si tratta sempre e comunque di un paio di ali di resina, dei comandi con cui muoverle a destra e sinistra e poco più.
Dentro l’abitacolo si vedono tanti pulsanti e leve ma in realtà è tutto molto più semplice di quello che si potrebbe credere.
A parte degli schermini nuovi, di recente costruzione, che mi danno dei dati in tempo reale durante il volo, ciò che occorre manovrare per farlo evoluire e mantenerlo nel letto del vento è davvero poco.
Poco numericamente!
C’è la leva gialla, che sgancia la corda.
C’è la leva del carrello, per gli atterraggi.
C’è la leva blu alla mia sinistra che sono gli aereofreni. Ci tengo sempre una mano sopra durante il volo, non so se si tratta di abitudine o comodità.
Ci sono gli indicatori di quota, di velocità. Il variometro e la radio.
Questo è il riassunto della strumentazione. Poi ci sono i pedali, che muovono l’aliante sull’asse verticale e la cloche che mi serve per pilotarlo.
Io guido con i piedi.
Non è autocritica, ma una constatazione.
L’aliante si guida per lo più con i piedi.
Leonardo è stato costruito nel 1991 e da allora ha avuto diversi proprietari e ha volato per centinaia di volte. La fabbrica che l’ha costruito è polacca, la loro sede si trova nel sud-ovest del Paese, quasi al confine con la Repubblica Ceca.
Si chiama Marganski & Myslowski.
Esistono nel mondo fondamentalmente tre tipi di aliante.
Il primo è l’ASK21, è biposto, di produzione tedesca e tutti quanti noi iniziamo a volare su uno di quelli, è più grande e più lento, ti permette quindi meno acrobazie garantendoti più margine d’errore.
Quando migliori puoi passare al FOX, sempre biposto, ma biposto illimitato, che ti permette cioè di eseguire qualunque figura o manovra.
E poi c’è Leonardo, e con lui gli altri SWIFT S1.
Ogni FOX e ogni Swift al mondo è passato dalle mura di quello stabilimento.
Spesso vado a visitarlo, e quando parlo con gli ingegneri, o con i ragazzi della produzione ci penso e mi emoziona ricordarlo a me stesso.
Quelle menti e quelle mani hanno costruito ogni aliante che si rispetti che volteggia nel cielo.
Da brividi.
A vederli all’opera sembra di vedere un’equipe medica che esegue un’operazione a cuore aperto.
Molto più alta chirurgia che non semplice meccanica.
In fin dei conti chi meglio di un cardiochirurgo per lavorare su un’attrezzo con l’anima?
Sembrerebbe tutta una questione di cuore nell’aliante.
Si vola per sé stessi ma ancora di più si vola per gli altri.
Si vola per i giudici durante le gare, che sono la maniera in cui si decreta chi sia il più bravo tra di noi.
Ti cali in picchiata e devi eseguire una sequenza di evoluzioni dentro un cubo immaginario, di circa un chilometro per un chilometro, che si trova nel cielo sopra la loro testa.
Giro della morte, avvitamenti e vite, uno dietro l’altro e vieni giudicato per la tua posizione, per la tua precisione e per l’armonia.
L’armonia.
Come accade anche nella musica sono le pause che danno il vero ritmo alle note e conseguentemente alla melodia intera.
Non viceversa.
Uguale nel volo acrobatico: è il tempo che passi senza fare nulla a dare la musicalità alle tue evoluzioni.
Il parallelo più naturale è quello con le gare di tuffi: ogni acrobazia ha un proprio coefficiente di difficoltà e il voto della giuria determina chi sia il migliore della prova.
A me comunque piace da morire volare anche per le persone che vengono agli Airshow.
La componente altamente spettacolare delle nostre esibizioni spinge ad andare oltre le gare, organizzando anche degli spettacoli che siano un puro e semplice godimento per il cuore e per gli occhi.
Ovviamente lì non c’è competizione. E la competizione è tantissimo per un atleta.
A riguardo mi torna sempre in mente una frase di Agassi, che nella sua autobiografia disse che quando riusciva a vincere sentiva sempre un filo d’odio per quello stesso momento, perché dopo non avrebbe accettato niente di meno e la strada sarebbe stata nuovamente in salita per riottenerlo.
Vincere è come una leggera tristezza che ti cade in fondo al cuore silenziosamente.
Detto questo, anche se privi di competizione, gli Airshow rappresentano comunque una delle molteplici nature di questo magnifico sport.
Intrattenere ed emozionare.
La soglia dell’attenzione umana è monocanale, in sostanza ti concentri su una cosa per volta.
E anche per poco!
Per cui i nostri 4 minuti di acrobazie, a rtimo di musica e con le tracce di fumo che disegnano il cielo, sono una sequenza perfetta per rimanere a bocca aperta, sbalorditi ed innamorati.
Rispetto agli aerei i nostri fumogeni non creano una nube ma un scia sottile che non si disperde immediatamente.
E la gente può guardare tutta la tua traiettoria con continuità, osservarla impressa nel cielo.
Se hai sbagliato il tratto di penna bianca sul foglio azzurro è lì a ricordartelo.
Per questo pilotare un aliante è come un’opera d’arte, è come cantare una canzone live, anzi, meglio ancora, è come fare un disegno a matita senza poter mai staccare la punta dal foglio.
E questo è il motivo per cui prima ancora di partire devo sapere cosa passa nella testa di Leonardo e lui deve sapere cosa passa nella mia.