La mia vita è tutta un blocco.
A volte ci appoggio i piedi, altre volte ci appoggio l’anima.
Io ero quello a cui succedeva sempre qualcosa di strano poco prima della partenza.
Riscaldamento.
Musica nelle orecchie.
Quattro minchiate con i ragazzi.
Camera di chiamata.
In un loop continuo, dove l’inizio è la fine e la fine e l’inizio.
Non vedi l’ora che arrivi il giorno della verità, che arrivi lo start, ma allo stesso tempo, appena hai passato il traguardo, la testa gode perché sa che quello è il momento in cui la prossima gara è più lontana in assoluto, e non devi dimostrare niente a nessuno per un po’.
Guerra e pace.
Nei muscoli e nel cervello, che da due pezzi distinti creano uno sprinter solo.
Mani in posizione perfetta, a sfiorare la linea.
Scarpini chiodati appoggiati sul blocco.
Il corpo raccolto, compresso. Una molla di muscoli. Come un fucile a cui basta togliere la sicura per esplodere il colpo in avanti e bruciare l’aria della sera.
Poi, puntuale ogni volta, un istante prima del via, ecco arrivare la mia salvezza.
Una fitta allo stomaco, le gambe che diventano dure, un giramento di testa, i muscoli che si contraggono nel rifiuto di esprimersi, una cosa qualsiasi.
Gara dopo gara, ho sempre corso con un asterisco vicino al mio nome.
Trovare qualcosa che mi impedisse di fare il tempo-che-avrei-potuto-fare, rendeva la delusione meno amara, perché, in fondo, non è mai stata del tutto colpa mia.
“Jacobs ha un gran fisico, ma si ferma sul più bello.”
“Ha talento, ma non riesce a tirarlo fuori quando conta.”
Scattava sempre qualcosa nel mio inconscio, giù nel profondo, che finiva col sabotarmi e col farmi finire in un limbo in cui neppure sapevo se essere arrabbiato con me stesso oppure no.
Almeno fino all’anno scorso.
Fino all’anno scorso dicevo a me stesso che: “questo sono io, prendere o lasciare. Sono fatto così, mi mancano dei pezzi, e non potrò mai rimetterli tutti assieme”.
Quando capisci come fare a vincere, la sconfitta inizia a sapere di fango, e l’ultima cosa che vorresti è doverne ingoiare qualche altra cucchiaiata.
Nessuno ti può insegnare a vincere, ma solo darti gli strumenti per imparare a farlo da solo, e fino a che la lezione non entra nella testa, la sconfitta può anche avere un buon sapore. Persino il miglior sapore che tu abbia assaggiato fino a quel giorno.
Nessuno ti può insegnare a vincere perché per arrivare in alto, al limite massimo di quello che hai dentro, devi essere completamente nudo.
Nudo, del tutto senza filtri.
Se non sai chi sei per davvero, se non capisci le sofferenze o le mancanze che hai avuto, se non conosci il tuo valore come essere umano, è matematicamente impossibile che tu riesca a mettere in pista tutto quello che serve per distruggere i tuoi muri. Tecnici, fisici e personali.
Spaccarsi in palestra fa male.
Le ripetute fanno male.
Fallire fa male.
E dalla mia infanzia, e fino al lockdown della primavera scorsa, io non ero del tutto pronto ad accettare il dolore che si deve pagare per la grandezza.
Sono sempre stato un bambino diverso dagli altri.
Mulatto, quando in Italia era ancora difficile trovare delle classi in cui tutti gli studenti non fossero bianchi.
Orgoglio e pregiudizio.
Figlio di genitori separati, il cui padre, semplicemente, non c’era, sono cresciuto con la famiglia della mamma, che mi ha sempre fatto sentire amato e protetto. In casa la grande passione erano i motori, e ogni weekend andavamo tutti insieme in gita per vedere le gare del Campionato del Mondo di motocross.
Nel cortile di casa dei nonni c’era una lunga discesa e, visto che mia madre non voleva che diventassi un pilota, io la facevo sempre di corsa, simulando l’acceleratore con le mani al cielo e immaginando di diventare un campione.
Ho sempre voluto fare l’atleta. Mai avuto un dubbio.
Anche quando i professori, a scuola, mi dicevano che era meglio lasciar stare e concentrarsi sugli studi, io sapevo di avere il potenziale per fare qualcosa che non era nelle corde di tutti.
Volevo costruirmi una vita bella, diversa da quella degli altri.
Correre è un pezzo della mia vita da sempre.
Alle elementari andavo in una scuola privata di suore, che aveva un cortile immenso e in cui ero il solo ragazzo di colore .
Ogni mattina i miei compagni si sfidavano in gare all’ultimo metro, con in palio la mano delle ragazze più carine delle classe.
Come se vivessimo dentro un episodio teen della saga di Fast & Furious.
Non mi lasciavano mai partecipare. “Non vale, se no vinci sempre tu”. E io me ne restavo lì, indeciso sul fatto che quello fosse un complimento oppure un’offesa, a guardare le fidanzatine ambitissime per cui non avevo il diritto di competere.
Era frustrante che fosse proprio il mio dono ad essere il motivo della mia esclusione.
Già dovevo sempre spiegare perché non avessi un papà, e quella era di certo la parte più difficile. Ogni volta che ci chiedevano di disegnare la nostra famiglia, le figure che facevo erano sempre e soltanto due: io e la mamma.
E tutti, ovviamente, mi chiedevano il perché.
All’inizio esaltavo la figura di mio padre, creando, per me e per gli altri, un motivo valido per spiegare il perché lui non fosse con me.
Ex Marines, impegnato in guerra, le cui gesta eroiche lo obbligavano ad essere dall’altra parte del Mondo. Questa era la versione che preferivo.
Poi, crescendo, ho cominciato a capire che il vero vuoto non era negli occhi degli altri ragazzi, ma nel mio stomaco, e ho tirato su un muro per proteggere quello che avevo dentro e che ancora mi piaceva.
Ho smesso di parlare di lui, ho smesso di pensare a lui, per evitare di rivivere le sensazioni di un abbandono che forse non ho vissuto del tutto, ma che ho sentito fino nell’anima.
Correre è stata una cura, uno sfogo.
Un modo per esprimere me stesso.
Però, anche quando sono arrivato ad alti livelli, non riuscivo mai a sentirmi del tutto coinvolto in quello che facevo. A 17, 18 anni, anche se vedevo gli altri andare più forte di me, non mi scattava quel desiderio bruciante di vedere per davvero quanto valessi. E continuavo a fare le cose a metà.
Quando sono diventato professionista, uno dei soprannomi che mi hanno dato in squadra era “lo scavezzacollo”, perché ero quello sempre pronto a sdrammatizzare e a riderci sopra.
Ma dietro le battute, l’ironia, dietro le cazzate nascondevo tutte le mie insicurezze, che per anni mi hanno incollato i piedi alla pista, aiutandomi nel giocare a nascondino con le mie questioni irrisolte.
Dentro di me c’era una voce, una di quelle che bisbiglia, e che se ascolti la musica al volume a cui piace a me, neppure riesci a sentire.
Mi diceva di non provarci per davvero.
Di non andare a vedere cosa ci fosse alla fine del rettilineo.
Se non dai il massimo e fallisci, non importa, ti sentirai leggero comunque.
Ma se dai il massimo e fallisci lo stesso, allora significa che non sei abbastanza.
E quindi ecco che il mio cervello, mi ha sempre servito una scappatoia, una volta volta arrivato in pista.
Fino all’anno scorso.
Fino all’anno scorso perché il lockdown mi ha fatto comprendere tutta la fragilità del momento e tutta l’importanza di ritrovare le mie origini, nella loro completezza. Il Mondo che si è accartocciato nella paura di sparire, con progetti lunghissimi o nuclei famigliari distrutti nello spazio di un attimo, mi ha spinto a voler far pace con la mia storia.
Io sono quello che sono, errori e mancanze comprese, ed essere messo di fronte alla delicatezza della vita mi ha risvegliato qualcosa nel profondo.
Ho cominciato un percorso, non da solo, ma di cui ho fatto io il primo passo, per imparare a volermi bene per come sono fatto e per capire da dove vengo davvero.
Abbiamo abbattuto blocchi enormi, fatti di vecchi ricordi, che il tempo aveva reso cemento, e ho imparato che anche se un pezzo di me ha sofferto un vero e proprio abbandono, sbagliare una gara non me lo farà rivivere.
Non sono amato e non amo in misura direttamente proporzionale a quello che faccio. Ma sono un uomo, e basta questo.
Dall’anno scorso è cambiato tutto, e quando ho smesso di avere paura di prendermi sul serio in pista ho iniziato a sentirmi leggero come non mi ero mai sentito prima.
Ho distrutto muri, riallacciato rapporti, compreso che gli spigoli della vita a volte possono ferire, e che quando un animale è ferito non c’è vergogna nel nascondersi.
Oggi sono una persona diversa, che quando è arrivata sui blocchi di Torun con il miglior crono europeo e il terzo crono mondiale, non ha sentito paura.
Non ha sentito freddo, né caldo.
Non ha sentito pressione, né fretta.
Ma soltanto voglia di correre veloce, di divertirsi e di fare qualcosa di grande.