Prima fila.
È quel posto speciale, riservato a chi è riuscito ad arrivarci tra coloro che hanno investito tutto, che di solito sono quasi tutti.
Davanti al palcoscenico e con tutti gli altri alle spalle.
La scenografia è quasi surreale.
È l’ultima giornata dei giochi olimpici di Rio de Janeiro e la grossa pioggia tropicale ha martellato incessantemente la terra fino a renderla lucida come l’argilla.
Un tavoletta perfetta per tracciare solchi con le nostre ruote.
Le lenti arancioni dei miei occhiali saturano i colori e il casco che mi fascia la testa attutisce i rumori che mi circondano, potrebbero essere ad un centimetro esattamente come ad un chilometro dalle mie orecchie.
È il suono di altri quaranta atleti che come me hanno pagato a prezzo pieno il biglietto che ci ha portati qui.
Artisti e spettatori della nostra stessa messa in scena.
Ho lavorato su ogni dettaglio per mesi, per anni, provato e riprovato gesti faticosi e innaturali fino a renderli degli automatismi ed arrivare ad essere pronto oggi.
E lo sono davvero.
Ho la gamba forte abbastanza per sapere che posso mantenere questa prima fila per tutta la durata della corsa. E se non bastasse l’energia che sento stipata nei quadricipiti, se non bastasse quella a farmi sentire pronto allora ci pensa la sua smorfia a dissipare ogni dubbio.
Il Domi, che mi allena da quando ne ho memoria, lui che ha visto la migliore e la peggiore versione del pilota che sono, incrocia il mio sguardo a pochi istanti dal via e solleva uno zigomo in un'espressione che è il sorriso di chi non fa l’occhiolino e dice a bocca chiusa:
Siamo pronti.
Il primo giro è la recita fedele della sceneggiatura scritta in allenamento.
Sto davanti e sto volando.
Sono veloce come non lo sono stato mai e il mio contachilometri porta il nome di Peter Sagan, siamo io e lui e siamo davanti a tutti.
Ma quanto è fragile la fune che regge il peso di una carriera?
Quanto è precario l'equilibrio tra ciò che puoi padroneggiare e ciò che è fuori dal tuo controllo?
Proiettili imprevedibili sparati dalla sorte all'improvviso che colpiscono sempre qualcuno e puoi solo sperare di non essere tu quel qualcuno, almeno non oggi.
Almeno non oggi che sei pronto.
Se la mattina che aspetti da quattro anni ti svegli malato, se l’autobus sul quale viaggi per raggiungere il campo gara resta soffocato nel traffico?
E se dopo aver concluso un giro perfetto buchi la ruota, come è successo a me in quella corsa tanto attesa, cosa resta se non la certezza che senza l'inconveniente saresti stato pronto?
Certo, a volte la magia che si respira nelle grandi manifestazioni trasforma quella fune sottile in un cornicione più stabile.
Quel tanto che basta a creare un piccolo ma fondamentale spazio di manovra nel quale la mente riesce a prendere il problema e poi risolvere il problema.
Un proiettile vagante infatti portava il mio nome anche durante i giochi Olimpici di Londra, e mi sono ritrovato a correre l’ultimo chilometro sospeso tra il Tamigi e un castello medievale senza sella.
Senza sella sì, ma anche senza dubbi di riuscire a difendere quella medaglia di bronzo.
I terreni difficili mi fanno sentire in una zona di comfort e quella pista era fatta per stare in piedi sui pedali, l'ho fatto solo più degli altri.
Ho vinto senza essere veloce e sono stato velocissimo quando il mio nome si trovava a metà classifica.
Vincere è emozionante per me e per chi mi sostiene ma solo la velocità mi diverte.
E divertirsi per fortuna è ancora la cosa più importante.
Quando un atleta intraprende un percorso verso l'eccellenza supera via via quegli ostacoli che lo portano ad abitare luoghi sempre meno affollati.
Non parlo di metropoli o campagne, di piste o strade sterrate.
Sono luoghi della mente, piattaforme della resilienza.
Gradoni da scavalcare che sono i miglioramenti necessari.
Prima sono molto alti, quando sistemi la tecnica e scopri di esser bravo, e come te tanti altri.
Poi sali gradini un po' più piccoli ma che sono frutto comunque di un miglioramento sensibile della tua prestazione. Ottenuto grazie al lavoro, all'impegno quotidiano e, quando finalmente sei pronto, poggi i piedi lì sopra assieme a tutti quelli che sanno resistere alle fatiche.
Gli ultimi gradini, quelli in cima, sono i più piccoli in assoluto ma non per questo sono semplici, al contrario.
Si lavorano i dettagli, le imperfezioni, le sfumature ed è proprio lì la differenza, in cima alla piramide c'è poco spazio e i tuoi piedi sembrano sempre troppo grandi per non cadere.
Perché è questa l'alternativa all'equilibrio.
Quando sei in cima basta una folata di vento e non esiste la quasi-prestazione.
Un piccolo errore e non arrivi secondo.
No. Non arrivi proprio.
Come la biglia della roulette che danza sulla circonferenza, come una macchina da corsa che sfiora il cordolo della pista, quel centimetro è il filo su cui dondola la sorte tra la gara perfetta e il ritiro.
Ma nessuno che ha costruito con tanto amore quel momento accetterebbe di stare a più di un centimetro da quel pericoloso cordolo.
Ogni atleta è il pilota di quella Formula1 che spinge al limite fino a vibrare, consapevole fin dal primo giorno che ci sono rischi da correre, che a stare sul piccolo gradino alto ci si espone ai fulmini.
Consapevole al punto da non pensarci mai.
Perché se pensi di cadere come fai a goderti il panorama?
L'opera perfetta è cosi fragile che se la tratti con i guanti ti tremano le mani e cade di sicuro.
Il tempo, le cadute.
Le imprese realizzate e quelle sfiorate.
I chilometri, reali o metaforici che siano, insegnano la differenza tra prestazione e risultato.
A sentire nella pancia e trattenere in eterno la soddisfazione che può regalarti anche un singolo segmento di gara.
Se il tuo gesto è impeccabile, se sei cosi veloce da sentire l'aria frustare la pelle e se con la bici accarezzi ogni avvallamento del terreno, allora sei lì in cima.
Sei il funambolo che cammina spedito senza guardare mai giù e una gomma forata potrà anche farti scendere dal podio ma non far vacillare quell'equilibrio.
A diciotto o vent'anni siamo titolari di quell'arroganza necessaria a sopravvivere nella giungla dello sport professionistico.
Ogni traguardo, ogni piazzamento è la benzina che alimenta i muscoli in allenamento, che giustifica gli sforzi, i dolori e i sacrifici.
A quell'età la sconfitta non è accettabile, non è neppure un'opzione.
Ma oggi, che sono così fortunato da essere l'eroe dei miei figli come potrei dir loro che son triste quando una gara non va come vorrei?
Mi diverto come la prima volta che da bambino ho sfrecciato tra i pendii del Lago Maggiore sui pedali della mia piccola MTB, quando stare in equilibrio significava solo non cadere, non sbucciarsi le ginocchia e non dover spiegare a mamma che quel bruciore valeva il brivido di rimontare in sella.