Camminavo a Varigotti. Domenica mattina, il rumore delle auto che cercano parcheggio. Le mie gambe soddisfatte e doloranti dopo aver corso 14 chilometri.
Suona il telefono tra i rumori della strada: Gianni Petrucci.
Mentre inizia a parlare, il mio pensiero viaggia veloce a cercare il possibile motivo della chiamata. Me lo dice. Non ci ero arrivato. Mentre parla inizio a dirmi: “Però …interessante”.
180 secondi. Voglio rimanere con quella sensazione immediata. Non voglio cominciare a pensare, ad elencare dati…no. Voglio aspettare la mattina dopo. Non ci penso. Ma lo sento dentro.
Arriva il lunedi mattina e sento, ascolto che mi piacerebbe proprio. Completerebbe quello che vivo come pensieri e aspirazioni. Chiamo Petrucci. Fissiamo un appuntamento a Roma, dopo 48 ore da quella telefonata sono il CT della Nazionale femminile.
Mi piace. Senza esitazione. Come quando dissi sì a Siena, diventando il capo allenatore della squadra che aveva vinto sei scudetti di fila, che aveva un monte salari un decimo di quello di due anni prima, che era probabilmente (anche senza il probabilmente) destinata a chiudere dopo quella stagione.
Non ebbi nessun dubbio allora quando tanti, ai complimenti di circostanza, aggiungevano un sorrisetto ironico, senza riuscire a nasconderlo.
Non ho avuto nessun dubbio quando - questa volta - qualcuno aggiungeva: “che bello, una nuova sfida per te…”, facendomi capire: “Beh allenare la femminile, boh…”.
Nessun dubbio. Al lavoro. Avevo grande desiderio di conoscere quel mondo. Non potevo farlo tramite infinite persone. Ho fatto selezione, cercando quelle che ero sicuro avrei ascoltato, non per presunzione, ma per qualità di rapporto.
Ascoltando, chiedendo. E individuando subito un avversario da sconfiggere: il Ma.
Nessun Ma. E nessuna differenza tra basket femminile e maschile. Basket. Punto. Semplice. Per non porre confini e limiti.
#contagioazzurro per visitare le società, avvicinarmi alle giocatrici, per vederle sul campo. Non solo giocare, ma parlare, ascoltarle. Comunicare, e respirare l’aria.
Presto si è aggiunto un secondo avversario, altrettanto pericoloso: i luoghi comuni. Quelli che poi portano al Ma.
Io non ho proprio nessun dubbio. Ci metto energia, all’inizio guardato, osservato, prima di essere capito.
Ed è esattamente l’energia ciò che cerco. Il gruppo non doveva essere più solo “delle solite” come sentivo. Tutte devono sognare insieme, tutte devono voler essere parte Azzurra.
Proprio in occasione di #contagioazzurro, tappa di Venezia: resto impressionato da intensità e qualità in aumento ripetizione dopo ripetizione. Nella testa riecheggiavano molti “è la gemella scarsa” che avevo sentito.
Io vedo Caterina Dotto, e penso che no, non è la gemella scarsa di Francesca.
Accelerazioni in partita: mai in curva, ma sapendo dove andare.
Poi difesa fisica, dura, con desiderio. Non vivendola come dovere, ma come occasione di esaltazione.
Ascoltando per aggiungere dati, ma non disperdendomi in condizionamenti.
Più di una persona mi ha detto: “quando ho letto della sua convocazione, ho assolutamente pensato che fossi impazzito”.
Sapevo di aver trovato una presenza che avrebbe dato sorriso di energia a tutte, tutti, compresi i muri della palestra.
Aver visto la sua gioia e non le belle parole che forse diceva: non riuscivo ad ascoltarle perfettamente, colpito dall’espressione del suo viso.
Conta come essere umano, conta ancora di più come allenatore di una Squadra, non di un gruppo.
Ragusa. Mattino di ottobre 2017. Mio primo allenamento con la Nazionale A. Cammino per il campo. In attesa. Emozionato. Entrano le ragazze.
Le prime due si siedono sulla panchina. Poi anche altre tre. Poi tutte le altre.
Chiedo ai miei assistenti Giovanni Lucchesi e Cinzia Zanotti:
“C’è sciopero?”
“No, è sempre così”
Avevo già guardato infinite partite in quell’estate, mi era restata sempre una sensazione. Poi negli allenamenti, anche quelli di Club. Sempre la stessa sensazione: (quasi) non si gioca per tirare.
Ma la sensazione non basta, e allora faccio una semplice ricerca statistica. Ogni quanto tiriamo? Come campione prendo le ragazze della Nazionale, confrontandole con quelle di Francia e Spagna (le due prime nazioni in Europa), oltre a Croazia e Svezia (le nostre avversarie nel girone di qualificazione agli Europei).
Tempo giocato e tiri effettuati. Semplice, due conticini: una nostra ragazza tira ogni 3’25”, nelle altre nazionali si scende tra i 2’30” e i 2’45”. Una differenza che sorpassa la sensazione.
Allora la raccolta dati si trasforma in obiettivo. Recuperiamo il piacere di tirare.
Partendo dalla bellezza del gesto, all’emozione della sfida per arrivare alla gioia di esultare.
Messaggio e percorso che non potevano essere quelli impolverati di sempre. Il tiro non è - solo - il gesto e la sua meccanica del manuale.
Un tiro è piacersi. Sentirsi. Immaginarsi. Guardare e copiare.
#ragazzeintiro. Allestiamo uno staff. Preparatore fisico, specialista del tiro, psicologa dello sport e nutrizionista. Una squadra per una sfida culturale.
Anche come comunicazione e strumenti. Numeri, angoli. Dati per capire.
Poi diamo un dettaglio. Mai un giudizio.
E questo ci porta alla scoperta, o meglio alla conferma, che le ragazze del nostro basket hanno fame di essere allenate. Hanno piacere di piacersi. Hanno dentro il desiderio di essere protagoniste.
Sorrisi e atmosfera ogni volta più contagiosi.
Spogliatoio post Italia-Croazia. Una brutta sconfitta. Battute proprio.
Però non voglio dire solo arrivederci. Un momento difficile per parlare ma sento di farlo. Quasi scontro tra due immagini, il bel gruppo e il giocare di squadra. Non lo dimentico. So di aver sbagliato. Ma oggi quell’errore di comunicazione è stato fondamentale per il nostro appartenersi.
E oggi ci sentiamo squadra. Con il piacere di contagiarci.
A Novembre manca poco. Finalmente. Europeo in palio: non siamo ancora qualificati. E dobbiamo andarci per qualificarci al Torneo Pre-Olimpico. Sognando Tokyo.
Non siamo qualificati. Non ancora. Ma dobbiamo sognare. È bello. Ed è giusto che non lo nascondiamo.
Le 3.000 persone di Pavia. Le tante persone che ci hanno detto “ma che bella partita di basket” dopo la Svezia. Essere campioni d’Europa con l’U16 di Lucchesi e con ragazze che magari prima o poi saranno con la Nazionale A. Chissà che non succeda già a Novembre.
E poi le ragazze che sono in NCAA: Elisa, Lorela, Francesca, e tutte le altre.
#sipuòfare. Una generazione c’è, una generazione e mezza potrà arrivare. Abbiamo la fame di attenzioni e l’ambizione, insieme alla qualità. Combinazione da proteggere. Da moltiplicare contagiandosi. Non attraverso luoghi comuni, ma integrandole con le visioni di oggi.
Il nostro basket non è un gioco di passaggi. Tiriamo, divertiamoci, sfidiamoci. Più facile. Più bello. Più sorriso.
Nello spogliatoio dopo la gara 7 di finale scudetto persa contro Milano, avevo detto ai miei ragazzi di Siena:
“Quello davvero in difficoltà adesso sono io, perchè mi avete regalato il sogno che avevo fin da quando ho voluto fare l’allenatore di pallacanestro. E adesso dovrò trovarne un altro”.
Eccolo, il nuovo Sogno.
Per vincere e per avere più bimbe con la palla in mano.