Il primo pezzo non me lo ricordo, ma il primo per “La Gazzetta dello Sport” forse sì, dovrebbe essere questo: Mondiali di bocce, al Palalido, a Milano.
Non ne sapevo nulla, se non quello che sanno tutti, tornai a casa carico di appunti come se dovessi scrivere non un pezzo, ma un’enciclopedia, comprese - a mie spese (che superavano il compenso) - due magliette, una bianca con scritte in nero e una rossa con scritte in blu, celebrative, non del mio pezzo, ovviamente, ma del Mondiale.
C’erano di quei fenomeni, tra raffa e volo, tra puntate e bocciate, capaci di convertire al politeismo.
Il primo pezzo con la lode fu per “la Repubblica”, pagine milanesi, una rubrichetta estiva battezzata “calici e cicchetti”, e il caporedattore, che mi aveva martirizzato per mesi, chiese silenzio, lo ottenne, ne approfittò per elogiarmi pubblicamente, io mi vergognai così tanto che avrei preferito subire il solito martirio.
Il pezzo più breve - ancora per “La Gazzetta dello Sport”, sette o otto righe, eppure era già un pezzo, un pezzullo, un pezzetto, un pezzettino - sul cucchiaio di legno, specialità della Nazionale di rugby italiana da quando è stata ammessa a mescolare il Sei Nazioni.
Il pezzo più lungo - sempre per “La Gazzetta dello Sport” - tre pagine in tre giorni in morte di Alfredo Martini, ciclismo, anche se dire ciclismo è molto riduttivo, perché Alfredone era la memoria del Novecento, a pedali ma anche a braccia e a piedi, con le sue aspirate fiorentine, i suoi slanci poetici, le sue radici popolari, le sue visioni profetiche, la sua religiosità laica, tant’è che alla fine ne è nato un libriccino, che non poteva non intitolarsi che “La vita è una ruota”.
Il pezzo più scottante l’ho scritto sul calcio, anzi, per la precisione su Hakan Sukur, un attaccante turco dell’Inter.
Quella domenica segnò due gol e Candido Cannavò mi chiese di dedicargli un pezzo, appunto, colorito. Per ritrarre Sukur, scrissi che aveva imparato l’italiano così bene e velocemente che adesso lo insegnava a Bobo Vieri. A StraCandido il pezzo piacque a tal punto che lo pubblicò partendo dalla prima pagina. Lunedì mattina squillò il mio cellulare, pronto?, domandai, sono Massimo Moratti, fu la risposta, ma dai, pensai, invece era proprio lui, mi disse che non mi conosceva, che aveva letto il mio pezzo, e che non lo faceva per niente ridere. Invece io scoppiai a ridere, ma dentro di me, molto dentro di me, quasi in fondo.
Il pezzo più quadrato per raccontare Paolo Vidoz, pugilato, ma quadrato solo per via del ring, invece il pezzo più rotondo per descrivere il Mont Ventoux, ciclismo, anche se è una montagna conica.
Il pezzo più veloce alla finale Sud Africa-Inghilterra - in notturna - della Coppa del mondo di rugby 2007, dallo Stade de France di Parigi, gravato da qualche problema di wifi, e ad aiutarmi fu l’adrenalina, invece il pezzo più lento alla morte di Jonah Lomu, rugby, così lento (paradossalmente per uno che faceva della velocità, e della sua stazza, la sua arma migliore) che non mi uscì neppure una riga, poi però con gioia e sofferenza ne è venuto addirittura un libro, “L’Uragano nero”, e a sostenermi è stata la passione.
Il pezzo di cui mi vergogno di più è quello battuto in occasione dell’esclusione di Ivan Basso, ciclismo, dal Tour de France, sembrava un santo o anche un chierichetto, invece era un imbroglione e un bugiardo.
Il pezzo più faticoso quello fatto per la Formula 1, a Monza, non era il mio ambiente, mi sentivo a disagio, a dimostrazione che sono da due ruote umane e non da quattro meccaniche, una delle poche volte in cui avrei dovuto – dovuto - dire no, invece il pezzo più divertente – modestia a parte, uno più divertente dell’altro, ma grazie ai protagonisti, non a me – nella serie dedicata alle maglie nere del Giro d’Italia (per repubblica.it).
Il pezzo più olimpico (per gazzetta.it) su Dick Fosbury, salto in alto, incontrato per caso durante Londra 2012 a una mostra, il pezzo più iridato (per la rivista “Rouleur”) su Mario Cipollini, ciclismo, però 14 anni dopo l’iride, compresa la dichiarazione che se avesse conquistato meno donne delle vittorie (198) si sarebbe dovuto considerare uno sfigato, il pezzo più bronzeo (per “La Gazzetta dello Sport”) su Marco Aurelio Fontana, mountain bike, terzo ai Giochi di Londra 2012 arrivando senza sella, il pezzo più allegro (per “Rouleur”) un duetto (anzi, il duello) a parole, botta e risposta, tra Francesco Moser e Beppe Saronni, ciclismo.
L’unico scoop mi è venuto inciampando, non scavando.
Coppa del mondo di rugby 2007, Lione, All Blacks-Portogallo, 108-13.
In redazione bastava il risultato, perché solo il tabellino avrebbe richiesto una colonna del giornale. Rimasi in tribuna mentre i colleghi si precipitavano in sala-stampa. E vidi la rivincita, ma a calcio, in cui il Portogallo batté gli All Blacks 3-1. Il giorno dopo andammo tutti – All Blacks, Portogallo, il rugby e anch’io – sulla prima pagina della Rosea.
Non so perché si chiamino pezzi.
Mi piace immaginare che si chiamino così perché ciascuno è un pezzo di chi lo scrive, e anche di chi lo legge, fino a formare prima un mosaico e poi un archivio.
Pezzi di vita e di partite, pezzi di strada e di marciapiede, pezzi di spogliatoi e di sacrestie, pezzi di storia e di storie, pezzi di colore e di cronaca, pezzi trionfali e funebri, pezzi marziali e dolomitici, pezzi pazzi, pezzi – come la canzone di Levante e Max Gazzé – di me e a volte purtroppo anche di qualcos’altro. Nella lista dei ringraziamenti non solo tutti quelli che hanno cercato di insegnarmi qualcosa, ma anche tutti quelli che si sono fidati e confidati, prestati e regalati, sbilanciati e compromessi.
I miei eroi.