Margherita Granbassi

Margherita Granbassi

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È un po’ come quando ti prepari per una serata di gala: vestito perfetto, acconciatura articolata, la baby sitter già arrivata con largo anticipo, il sorriso pronto ad essere sfoggiato.

E poi, nel tragitto da compiere a piedi tra la macchina e l’ingresso ti si incastra un tacco nel tombino, si stacca e resta lì, costringendoti a claudicare nell’incedere.

Oppure come quando prepari uno speech da tenere di fronte ad un vasto pubblico, cosa che succede spesso a chi ha fatto sport ad alto livello: in un Università o magari davanti ai dipendenti di qualche grossa azienda.

Arrivi preparata, brillante; sai cosa devi dire e sai come hai voglia di dirlo ma quando stai per aprir bocca il microfono non funziona.

 

Non sempre ciò che programmi segue precisamente quelle linee che tanto faticosamente hai tracciato davanti a te.

Che si tratti di piccoli imprevisti, che magari sono solo dettagli come il microfono ed il tacco rotti, o che si tratti di cose molto più importanti, che possono far deviare prepotentemente il percorso pianificato, non tutto è sempre nel nostro pieno controllo.

 

Che poi la differenza vera tra il sapersi adattare ed il non saperlo fare, preferendo abbandonarsi allo sconforto, si può colmare quasi sempre con un gesto coraggioso, condito da un sorriso. Inizialmente sarà anche di circostanza ma finirà con l’aprirsi sincero, al progressivo diradarsi delle nubi.

 

Prendi l’altra scarpa e staccaci il tacco con le mani, saremo le sole a portare delle graziose ballerine alla cena di gala.

Oppure appoggia il microfono rotto sul tavolo, alzati e cammina tra gli ascoltatori, ti sgolerai per tenere alto il tono di voce, ma sarai anche più coinvolgente di chiunque abbia parlato prima di te.

 

Io avevo sempre immaginato, e conseguentemente programmato, la fine della mia carriera con dovizia di particolari.

Sapevo il quando.

Sapevo il dove.

Sapevo ovviamente il come avrei voluto mettere fine alla mia lunga permanenza in pedana.

Io pensavo a Londra, alle Olimpiadi del 2012 e, va da sé, la mia agenda ideale prevedeva un finale degno di questo nome, di gloria e riconoscimenti, per quella che, di fatto, è stata una lunga cavalcata inimitabile.

 

Margherita Granbassi

A Londra io ci sono andata.

Sì, ma a fare la commentatrice.

Circa un anno prima mi ero fatta male ed ero finita sotto i ferri per quella che è stata la mia sesta operazione, in pratica: un bollettino di guerra.

Nello specifico questo era un intervento non soltanto invasivo, ma anche invadente!

Un trapianto di cartilagine, con annesso il riposizionamento della rotula: insomma mi è stato proposto un completo riammodernamento del mio vecchio ginocchio malandato.

I mesi che hanno preceduto l’Olimpiade li ho trascorsi come troppo spesso mi era successo durante la carriera: sudando e penando.

Il tutto per inseguire un qualche cosa che aveva soltanto dei contorni sfumati.

E comunque per fortuna che c’erano quei contorni distanti: sono stati quelli a motivarmi nel lavoro quotidiano, anche nella consapevolezza che quella mia lunga rincorsa difficilmente avrebbe trovato soddisfazione piena.

Perché immaginavo Londra come traguardo ultimo?

Perché ci sarei arrivata a 32 anni, che è l’età perfetta per sentirsi mature e giovani contemporaneamente.

Per lo sport non sei mica vecchia a quell’età, anzi, ed in più sei ancora abbastanza giovane per tutti quei progetti e sogni che coltivi all’infuori della scherma.

Hai la freschezza fisica e la consapevolezza adatta per fare una famiglia, per diventare madre, essendo comunque riuscita a dedicare prima lunghi e divertenti anni ad inseguire i sogni individuali legati alle imprese sportive.

Mi sembrava l’età dell’equilibrio, della lucidità.

Lo sportivo professionista in procinto di iscriversi alle agenzie di collocamento poi, mette in mostra delle qualità ed al contempo delle difficoltà diverse rispetto ai propri coetanei.

Di sicuro ha imparato a gestire la pressione, a convivere proficuamente con i colleghi ed è allenato e resiliente allo sforzo: impara in fretta.

Ma deve anche trovare gli stimoli adatti a ripartire all’interno di un mondo, come quello lavorativo, nel quale non ha ancora conquistato nulla, a differenza di ciò che è accaduto in quello sportivo.

Io, comunque, non riuscivo a darmi pace e, a me, di farmi saltare completamente i piani dalla sfiga non m’andava e quindi ho posticipato il tutto di un anno, per regalarmi la sensazione di finire quando volevo farlo io.

Sentivo di avere ancora molto da dare, ma soprattutto tantissimo da ricevere.

Avevo sacrificato troppo me stessa negli allenamenti in confronto a quanto mi è toccato soffrire quando non potevo farli: era un vero e proprio conto in sospeso.

Margherita Granbassi

L’anno seguente però mi ha riservato due grosse sorprese.

La prima più che una sorpresa è stata un terribile trauma: l’ennesimo infortunio.

L’ultimo.

Mi si è rotto il tendine rotuleo a Torino e da quel momento lì, con la maschera ed il fioretto, non ho più ripreso.

Tre mesi più tardi ero incinta.

Ho accolto la notizia con una gioia profonda, di quelle intime.

Di quelle che sei così felice da non riuscire a far altro che sorridere e stringere i pugni, senza parlare a voce alta che tanto non serve.

Aver smesso per cause di forza maggiore mi lasciava un retrogusto amaro, un terribile senso di sospeso. Mi era stato tolto coattamente il gioco, il divertimento e per quanto fosse già da qualche anno che mi guardavo intorno in sperimentazione di nuove avventure post scherma, quella conclusione era stata un troncamento troppo netto per non lasciarmi la ferita esposta.

Quando ero nel pieno dei miei migliori anni da sportiva e progettavo la mia maternità futura e la costruzione della mia famiglia mi sforzavo grandemente di essere metodica, disciplinata nel pensiero.

E lo facevo perché in realtà io sono sempre stata una donna istintiva, istintiva al massimo, ed avevo la sensazione netta che senza darmi dei confini e dei paletti avrei finito con il seguire le sensazioni della mia pancia senza remore o programmazioni.

Mi sono da sempre portata dietro, nel borsone o nella borsetta, una personalità onnivora, intensamente interessata a tantissime cose, e contemporaneamente dolce ed adattabile, capace di inseguire e godere di cose diversissime tra loro.

Ho sempre immaginato che quando sarei diventata mamma non avrei fatto più la sportiva di altissimo livello, perché la maternità me la volevo godere in ogni sfaccettatura, in ogni attimo.

In ogni secondo apparentemente insignificante ma che poi non ritorna più.

Volevo vedere la sua prima parola certo, ma anche la seconda, la terza e la quarta.

Ed anche la prima parolaccia.

Insomma tutto!

Per questo ho immaginato il tutto in un grande, improvviso cambio di sceneggiatura come avviene a teatro tra un atto e l’altro.

Atleta, e poi mamma.

E quando lo sono diventata, mamma, tutto è radicalmente cambiato ovviamente e questa esperienza mi ha messo davanti a delle valutazioni e delle esperienze che credo sia importante condividere.

Perché se parliamo tutte insieme siamo più chiassose ed è dal chiasso che nascono le rivoluzioni, anche quelle culturali.

E se quello che diciamo ha anche senso ed impatto sulla vita di chi si appresta a fare certi passi o su chiunque si rifiuta di farli per una paura qualsiasi, allora ben venga il chiasso.

Margherita Granbassi

La nostra non è una società sufficientemente evoluta, purtroppo.

Alle nostre latitudini è troppo spesso considerato un ostacolo diventare madre, e questo è, tristemente, un dato di fatto.

Preferire un uomo ad una donna per il semplice dato della potenziale maternità è un modo di ragionare sessista e soprattutto molto povero.

La maternità dev’essere una scelta libera e deve poter essere considerata come un’esperienza talmente importante da diventare una risorsa nella formazione del carattere di un dipendente e non un sintomo di probabile scarsa flessibilità.

Diventare madri non significa smettere di lavorare, non significa smettere di fare sport.

Non significa smettere di viaggiare, per lavoro o per diletto.

Avere la possibilità di restare incinta non può mai essere una giustificazione ad una diversa retribuzione tra uomo e donna che ricoprono la stessa mansione.

Anche nel mondo dello sport talvolta emergono episodi sconcertanti: alcune società professionistiche arrivano persino a stracciare i contratti delle atlete che decidono per portare a termine una gravidanza.

Ma questo deve finire.

E deve finire sia per l’intervento delle istituzioni, cosa che il CONI, per esempio, sta perseguendo con tenacia e con forza; ma anche e soprattutto per una condivisa presa di coscienza della popolazione.

Dei primi, concreti risultati il Comitato Olimpico li sta ottenendo per davvero, attivando politiche reali ed importanti, con l'obiettivo, tra gli altri, di creare un movimento di sensibilizzazione.

Una consapevolezza nuova, che senza differenza di genere, arrivi a smuovere anche i più giovani, che dentro questa società che mercifica il corpo, svende i valori e demonizza la maternità non ci devono solo vivere, come noi, ma anche crescere.

E crescerci crea solchi profondissimi davvero.

Quando sono diventata mamma ho rinunciato a diversi lavori ed opportunità di carriera, perché in cima ai miei desideri c’era la volontà di vivermi la mia nuova quotidianità full immersion, senza giorni festivi e pre-festivi.

Provare ad essere un po’ una mamma di una volta.

Voglio essere una mamma che cucina e fa il bucato, che educa sua figlia con l’esempio e la presenza più che con i libri e le direttive da rispettare quando non ci sono.

Soprattutto nel primo anno e mezzo sono davvero riuscita a gustarmi pienamente quest'avventura, prima di riprendere, ovviamente, un ritmo lavorativo soddisfacente ed intrigante anche sul piano professionale.

Ma quando immagino mia figlia adulta la vedo indipendente ed emancipata.

La voglio vedere capace e soprattutto libera di scegliere qualunque strada vorrà, umana e professionale, e sogno che possa farlo dentro una società nella quale mettere al mondo una vita nuova sia motivo d’una tutela in più e non un’occasione per discriminare.

Margherita Granbassi / Contributor

Margherita Granbassi