Tu sei quella da sistemare / Sta tranquilla, lo farò / Ora sembri un bel rametto / Che un frutto darà.
Brillerai come mai / E d'orgoglio brilleremo noi / La più bella certo tu sarai / Molto lustro ci darai.
Le aspettative sanno essere carburante che ti spinge e sanno essere paracadute che ti frena, a seconda delle volte.
A seconda di quanto sono larghe le tue spalle o di quanto insistentemente provino a spezzartele facendo leva con la forza.
Molto spesso gli occhi della gente che sentiamo posarsi su di noi non esistono affatto. Ma prendono comunque vita nella nostra testa e, da lì, diventano uno scoglio gigantesco, che è impossibile da abbattere o da circumnavigare a colpi di bracciate.
Ti siedi per un esame.
La prima domanda ti spiazza un po’: non ti ricordi la risposta.
Ed ecco che tutti gli sguardi di chi sta seduto nei banchi dietro la tua nuca prendono corpo, assumono massa, riscaldano l’aria ed iniziano a farti friggere, come una patatina buttata nell’olio che bolle.
Da quel momento lì in poi tutto diventa più difficile che mai.
Due compagni che si guardano e parlottano stanno sicuramente parlando di te, della risposta che hai sbagliato, e finisce che la domanda te la dimentichi del tutto.
L’ansia è attrice nella vita di chiunque, talvolta co-protagonista da Oscar, in altre occasioni semplice comparsa, ma è presente sempre, anche se a livelli ed intensità differenti per ciascuno.
È una grande equilibratrice sociale, che può colpire il talentuoso come l’incapace; può apparire di colpo, inattesa e inopportuna, scombussolando i piani all’ultimo secondo oppure essere presente già nelle considerazioni di partenza, infilata diligentemente nello zaino per la lezione, nella ventiquattr’ore per il lavoro, nella pochette per un appuntamento.
O nella sacca per l’allenamento.
Nel borsone per la piscina, che l’ansia non è indrorepellente e sa essere pure impremeabile, se vuole.
Questo, per me, è stato il solo, grande, ostacolo da superare per riuscire ad esprimere compiutamente in vasca le mie qualità, e venirne a capo mi è costato fatica e preoccupazione.
Forse quello che volevo dimostrare era che riuscivo a cavarmela e guardandomi allo specchio, avrei visto qualcuno che valeva. Ma mi sbagliavo, io non vedo niente!
Da bambina non mi era mai successo di farmi prendere da un attacco, era tutto un gioco per me e, in quanto tale, era sempre spensierato e divertente. Mia sorella, che è più piccola di due anni e che nuotava come me, a volte si bloccava a bordo vasca e si abbandonava ad un pianto incontrollato, come se fosse pietrificata dall’ansia.
A me invece non succedeva mai.
Era prima dei doppi allenamenti, prima delle aspettative, prima delle grandi manifestazioni a cui puoi, o non puoi, essere convocata. Era prima che il cronometro decidesse se quella che stava finendo era da considerare una buona giornata, una pessima giornata o qualcosa nel mezzo.
Il cambiamento non è avvenuto all’improvviso ma è stato piuttosto un lento e progressivo abbraccio stritolante del quale mi accorgevo ma che non riuscivo ad interrompere in nessun modo.
Come il serpente de “Il piccolo principe” quello che cerca di mangiare un elefante e che visto da lontano sembra un cappello: più mi ribellavo e più finivo invischiata e preoccupata per qualcosa che faticavo a combattere con successo.
Mi sentivo la portabandiera unica e fragile delle aspettative di chi investiva qualcosa su di me e suoi miei risultati: tempo, denaro e affetto. Una matassa di speranze che con il passare dei giorni si facevano di granito, rendendole più solide e pesanti, impossibili da trascinare una volta entrata nella mia corsia.
L’inizio dell’anno olimpico, nell’autunno del 2015, con il suo naturale carico di desideri extra, brandati con i cinque cerchi, ha fatto esplodere in me la paura più subdola per la competizione, trasformando la piscina in cui nuotavo in una sauna irrespirabile.
L’ansia compariva sotto forma di attacco di asma, paralizzandomi il respiro.
Il diaframma mi si inchiodava, non riuscivo più a riempire i polmoni di aria buona e mi ritrovavo quasi a singhiozzare nel tentativo di portare un po’ ossigeno dentro all’organismo.
Al mio primo campionato Europeo di vasca corta, a Netanya nel 2015, ricordo che in camera di chiamata ero talmente tesa da aver richiesto l’aiuto di un fisioterapista che mi sbloccasse il diaframma e mi permettesse di buttarmi in vasca.
Il desiderio di fare bene; la voglia, fortissima, di accontentare le aspettative di quelli che per me contavano qualcosa; il peso degli sguardi di tutti gli altri, che io mi sentivo costantemente addosso.
Tutto questo mi aveva portato ad un lento esaurimento.
Era come se avessi già vissuto la gara venti volte prima di tuffarmi. La visualizzavo nella mia testa, una ripetizione dopo l’altra, ripassando quel che avrei dovuto fare nel dettaglio. E ogni volta che ne finivo una simulazione mi ritrovavo con le spalle un po’ più chiuse e il respiro un po’ più corto, fino al punto in cui, semplicemente, non respiravo affatto.
Altre volte invece l’ansia mi prendeva durante la gara stessa e mi appannava la vista oltre che accorciarmi il respiro, già provato dallo sforzo.
Come agli Europei di Londra.
Ero talmente concentrata su quel che avrei dovuto fare dopo (dopo la virata, dopo la bracciata, la vasca dopo) da perdermi le bandierine dei cinque metri e sbattere contro il bordo.
Per quanto il vento ululi forte, una montagna non può inchinarsi ad esso.
Nello sport di squadra l’ansia forse è un po’ più semplice da spiegare. In fondo di là, oltre la rete e con la divisa diversa dalla nostra, ci sono gli avversari. E il loro compito è quello di mettere i bastoni tra le ruote del nostro carro.
Lanciare sassolini negli ingranaggi che proviamo a mettere a punto durante gli allenamenti per farci deragliare.
Nella partita c’è sempre, quindi, una parte di sconosciuto, legata a loro, agli altri, a quanto saranno bravi nel non farci fare ciò che siamo bravi a fare noi.
Anche nel nuoto l’avversario c’è. È lì a fianco, diviso da una fila di galleggianti tenuti insieme e allineati come le collanine che si facevano da bambine.
C’è, eppure non mi tocca.
C’è eppure non può impedirmi in alcun modo fisico e tangibile di fare ciò per cui ho lavorato come un mulo: andare forte.
Lei guarda me e io guardo lei, ma non ci possiamo mai tagliare la strada a vicenda.
Per me la pressione più grande durante la gara veniva dall’eccessivo rispetto per il lavoro che avevo fatto prima di arrivare lì. Punto.
In camera di chiamata, sul blocco, nel sistemare il device per la partenza, io rivedevo le centinaia di chilometri nuotati per arrivarci, le migliaia di ore, le incazzature, le terapie, i sovraccarichi, la fatica. Tutto mi si appariva davanti come se si trattasse di un’eredità preziosa, delicata al punto da aver paura di maneggiarla.
E mi bloccavo.
Arrivai al punto di essere talmente impaurita da quel carico di rispetto che entrai in un circolo vizioso che colpiva oltre alle gare anche gli allenamenti più duri della settimana. Arrivavo sul piano vasca con un tale desiderio di fare al meglio la seduta che sentivo essere importante dal rivivere l’incubo di un attacco di asma, come in gara.
Un solo chicco di riso può squilibrare la bilancia, un solo uomo può segnare la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
Il malessere se è profondo si incancrenisce e diventa cronico. E da un male cronico si guarisce con fatica perché quello porta con sé sintomi nuovi e spaventosi. Cose di cui non avevi mai sentito parlare o che non credevi potessero esistere in te.
Iniziai ad aspettare gli allenamenti con disagio crescente, preda della paura di aver paura che pensavo avrei sentito di lì a un po’.
Per cui dopo pranzo mi capitava di chiudermi in stanza, soprattutto quando riuscivo a rimanere completamente sola, e di passare le ore tra gli allenamenti a mangiare qualunque cosa riuscissi a recuperare.
Una fame insaziabile, nervosa. Mangiavo per ore ininterrottamente: dolce, salato, barrette. Di tutto.
Poi il mio stesso senso del dovere e di rispetto verso il lavoro si trasformava in senso di colpa per l’abbuffata e mi spingeva a mettermi due dita in gola per vomitare e, pensavo io, a riparare così ad un errore con un altro errore.
Da questi episodi nascevano poi una serie di saliscendi emotivi, delle montagne russe spaventose e solitarie contro le quali combattere per rimanere incollata al sedile senza cadere.
Mangiavo poco, o non mangiavo affatto, poi, magari, mi abbuffavo ancora.
Per tutto il 2016 ho sofferto di questi disturbi alimentari, che mi hanno spaventata profondamente e che hanno messo a dura prova la mia testa prima ancora del mio fisico.
Solo nei raduni lunghi, come quello di tre settimane nell’altura della Sierra Nevada, riuscivo, per forza di cose, ad avere un controllo maggiore sui miei ritmi e sulla mia alimentazione.
Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti.
Come spesso accade nello sport, e credo anche nella vita, tocca davvero raschiare il fondo per cominciare a risalire. Basta un attimo, quello in cui tutte le conseguenze delle tue paure ti si palesano davanti insieme, all’improvviso, nel disegno di un fallimento completo.
È l’istante in cui o ti abbandoni alla somma delle cose negative che stai affrontando perché l’hai finalmente vista per intero, oppure decidi che val la pena provare a far qualcosa prima di appoggiarsi al bordovasca per guardare le altre che nuotano.
Era la semifinale dei 200 al mondiale di Budapest 2017 e io mi sono ritrovata in partenza con il solito carico di ansia e completamente priva di energie.
Quello è stato il mio punto di rottura.
Che cosa mi avevano portato le ansie?
Facevo forse meno fatica delle altre atlete che vedevo arrivare secondi prima di me?
Lo stesso sforzo, lungo settimane e mesi, eppure nuotavo quattro secondi più lenta delle migliori.
Non so quanto sia stata la disperazione e quanto la rassegnazione, quanto il frutto del lavoro fatto con la psicologa e quanto invece la semplice voglia di smetterla di sentirmi così, ma ho deciso di iniziare la nuova stagione chiedendo di meno a me stessa, per provare a raccogliere di più.
Un cambio di prospettiva.
Mi sono accorta di avere gli strumenti sufficienti e adatti, per trasformare le aspettative in qualcosa di trasparente e scintillante. Qualcosa da mettere al collo se le cose vanno bene e da disinnescare con un sorriso se invece non tutto è andato come da programma per quanto difficile possa essere.
Ho iniziato a permettermi di distrarmi, soprattutto a ridosso della partenza. A volte adesso mi fermo a parlare con gli allenatori o con i compagni di qualcosa di diverso dal nuoto e così facendo mi dimentico del nuoto per un attimo, che poi un attimo è esattamente quanto durano le gare di nuoto.
E così sono riuscita a rendermi conto che quelle dei miei genitori, quelle della mia famiglia e quelle del mio allenatore non sono aspettative, sono desideri.
Desideri per me che esprimono loro.
Come se, trovata la lampada del genio, non la usassero per le cose loro ma per le mie.
Mi sono resa conto che è giusto continuare a lavorare con la cura di prima ma che è utile sgrassare via le preoccupazioni più inutili e pesanti, che in acqua fanno solo da zavorra.
Ho imparato che l’ansia c’è per tutti quanti, indistintamente e che, con l’aiuto delle persone giuste, si può imparare a conviverci e a trasformarla, perché i mezzi per farlo, dentro, ce li abbiamo direttamente nello starter pack.
La foresta è calma / Ma nasconde in sé / Mille e più minaccie / Vi trasformerò / Fino a far di voi degli uomini
E sarai veloce come veloce è il vento / E sarai un uomo vero senza timore / E sarai potente come un vulcano attivo / Quell'uomo sarai che adesso non sei tu
Tutte le citazioni presenti sono tratte dal film Disney Mulan.