La nostra è una disciplina diversa da tutte le altre specialità acquatiche.
È una sfida quasi selvaggia a sè stessi ed alla natura, prima che alle avversarie.
Si percorrono distanze lunghe, lunghissime, in acque a volte torbide e pesanti.
Non ci sono quelle rassicuranti strisce nere, perfettamente parallele, ad indicare la direzione da percorrere, ordinatamente dipinte sul fondo della piscina.
Si nuota nei mari, nei laghi e nei fiumi.
Durante la seconda Olimpiade, più di 100 anni fa, corsero nelle acque della Senna, nel pieno centro di Parigi.
Ci sono le onde da domare, ti colpiscono con irregolare costanza e ti serve una grande forza mentale e fisica per evitare di esserne cullati o travolti, per andare dritti dove si vuole andare.
In vasca il ritmico virare dopo 25 o 50 metri coccola la mente del nuotatore, lo aiuta a razionalizzare, a calcolare.
Nell’acqua libera ogni metro misura impercettibilmente di più del metro precedente.
Gli inglesi chiamano questa specialità Open Water e credo che questa definizione renda bene l’idea dell’imprevedibilità di ogni bracciata.
Anche per questo:
Vincere è difficile.
Confermarsi lo è ancora di più.
Cadere è facilissimo.
Ritrovare sé stessi e rialzarsi è un atto di fede.
Ma quando ci riesci è una gioia immensa.
ATTO PRIMO: RICONFERMARSI
Era una caldissima giornata di luglio del 2011 ed ero a Shanghai per i campionati del mondo di nuoto.
Mi ero preparata a correre la 10 chilometri, che dal 2008 al 2012 è stata senza mezzi termini la mia gara: quella che mi ha dato le sensazioni migliori, la consapevolezza maggiore e, chiaramente, i risultati più soddisfacenti.
Dei 10 chilometri conoscevo già tutto, come dosare le forze, quando spingere, sapevo essere resiliente.
In questa gara mi giocavo la qualificazione per le Olimpiadi dell'anno successivo a Londra, non serve spiegare quanto la posta in palio fosse alta.
I dieci primi posti che assicuravano il biglietto per il sogno a 5 cerchi e una sessantina di delfine, pronte come me a sfidare le correnti e la marea.
Ho sempre preteso tantissimo da me stessa, inoltre venivo da 2 podi mondiali consecutivi in questa specialità:
il bronzo conquistato nel 2009 nelle acque di Roma
e l’oro del 2010 in Canada durante quella che sarebbe stata l’ultime edizione dei Campionati mondiali di nuoto in acque libere.
L’attesa del piacere nello sport non è essa stessa il piacere e la tensione pre-gara cresceva di ora in ora.
Finalmente, alle 10, si parte, riesco a mettermi subito sui piedi dell'inglese Kery-Anne Payne.
Piedi che io e le altre concorrenti abbiamo guardato per tutta la gara a Roma due anni prima, visto che lei vinse l’oro.
Al passare dei chilometri mi sono accorta che riuscivo a starle dietro mantenendo comunque il mio ritmo, aggressiva ma serena.
Qualcuna mi prova ad affiancare di tanto in tanto ma non mollo mai la seconda posizione, occhi fissi in avanti, onde alleate che mi sospingono.
Arriviamo all'ultimo rettilineo, sono circa 1000 metri e l'inglese inizia a incrementare il ritmo ma sono lì pronta a non farmi scappare i suoi piedi.
Non mi sono mai girata indietro: per vedere chi c'era dietro, per valutare in quante eravamo a giocarci le medaglie, mai, per me era come se fossimo partite in due.
Passo davanti al pontone del rifornimento e vedo il mio allenatore dell’epoca, Fabio, con le braccia alzate, il volto carico d’emozione, ma è un frame soltanto, un’istante e poi ancora giù, con la testa sotto.
Mancano ancora 500 metri, pochi rispettto ai 10 chilometri totali ma sembrano eterni.
Si nuota in un’acqua che è diventata densa e collosa.
Un mare di miele ormai.
Mi rimetto subito lì concentrata, per spingere ancora, non permetto alle gambe e alle braccia di sentire la fatica.
Quando mancano 100 metri provo addirittura ad attaccare l'inglese ma non riesco ad affiancarla così mi rimetto subito sui suoi piedi, diligente e concentrata.
Poi finalmente il tabellone.
Appena l’ho toccato sono esplosa in un urlo di liberazione.
Liberazione per tutto: era stato un anno lungo, intenso e avevo focalizzato tutto il lavoro di 12 mesi per quella gara.
Un bel rischio ma alla fine: prima l'inglese Kery-Anne Payne, seconda io e terza la greca Marianna Lymperta, una letteralmente sui piedi dell'altra e poi un po' di spazio prima della quarta.
Finita la gara ero semplicemente felicissima!
Ero riuscita a salire un'altra volta, la terza consecutiva, su un podio mondiale.
A poco a poco l'adrenalina e la tensione se ne sono andate e con loro anche le forze nervose, che ancora mi tenevano in piedi.
La sola cosa che avrei voluto fare era buttarmi sul letto e dormire molto a lungo.
Di sognare Londra e le Olimpiadi questa volta non c’era bisogno.
ATTO SECONDO: CADERE
Il 2015 è da molti, se non da tutti, considerato il mio anno buio.
Un anno in cui non ho portato a casa nessun risultato.
Un anno pieno di incomprensioni e di screzi con il mio precedente allenatore.
Ho sentito il bisogno di re-inventarmi e ad aprile ho chiuso le porte con il passato e mi sono rimessa in gioco.
Ho continuato ad allenarmi a Bologna ma con un altro allenatore, Matteo Cortesi, e ho partecipato al campionato del mondo di Kazan sulla 5 km, una distanza diversa, per rompere anche mentalmente con il recente passato.
Questo l'ho chiamato, scherzando, un mondiale di vacanza perché avrei gareggiato il primo giorno e poi basta, così negli altri giorni me ne andavo a vedere quasi tutte le gare tra fondo, tuffi, sincro e pallanuoto.
Alla fine del mondiale me ne sono andata in vacanza per quasi un mese; avevo il bisogno di staccare e soprattutto di capire quanta forza avessi ancora dentro di me.
Ho così deciso di trasferirmi a Roma da Emanuele Sacchi, allenatore esperto e affermato; metodo di allenamento rivoluzionato sia in acqua che in palestra.
Ritmi di vita un po' diversi, sono uscita dalla mia comfort zone per sfidare me stessa, ancora una volta.
E, perché no, per zittire le critiche.
ATTO TERZO: RITROVARSI
Sicuramente mi ci è voluto un po' per abituarmi però ho trovato in Emanuele Sacchi e Alessandro Avallone, rispettivamente allenatore e preparatore atletico, la fiducia di cui avevo bisogno per ridisegnare la mia rotta.
Cercavano sempre di tranquillizzarmi e di incoraggiarmi.
Il 2015 aveva lasciato in me molte insicurezze, tutto ciò che era granitico prima adesso era crollato, sgretolandosi sotto i miei piedi.
Mi continuavano a girare in testa le parole di molti, presunti, addetti ai lavori: è finita.
Quindi il 2016 è stato un anno in cui ho lavorato tantissimo cercando di non abbassare mai il capo, combattendo nella mia testa le stupide previsioni degli “esperti”.
Quando capitava che mi buttassi giù, quando magari qualcosa in acqua o in palestra non mi veniva con la dovuta naturalezza, cercavo di calmarmi e di reagire ripetendomi ossessivamente che non ero finita, come un mantra a cui ancorarmi.
Presto se ne sarebbero accorti tutti.
Il lavoro paga. Sempre.
Magari non quando vorresti tu, ma alla fine paga.
Paga.
Metà luglio, giorni dei campionati europei di fondo a Hoorn, Olanda, l'acqua del lago è bella fredda come piace a me.
Mi sforzo di non sognare in grande.
Gareggerò per ultima, nella 25 chilometri, una gara lunga in cui tutto può succedere.
5 ore e oltre di gara, nelle acque fredde e con i muscoli allo stremo.
Tocco IO per prima il tabellone.
Campionessa europea della 25 chilometri, come a Berlino due anni prima, esattamente come prima di “essere finita”.
Un volo fuori dall'acqua e inizio a saltare di gioia poi Emanuele Sacchi mi viene incontro e li incomincio a piangere.
Sono tornata, anzi non sono mai andata via.
Cadere è facile e può capitare a tutti.
A volte mi dico che loro forse ci hanno creduto più di me ed è grazie a loro se sono riuscita a rialzarmi.
Per quanto la loro fiducia sia stata uno scoglio importante nella burrasca, la verità è che il sacro fuoco per affrontare prove così dure bruciava ancora dentro di me, coperto dalla cenere magari, ma vivo e vegeto.
La fiducia degli altri va alimentata con la propria.
Oppure non basterà mai.
Come diceva una fortunata campagna pubblicitaria di qualche anno fa:
se non credi in te stesso non aspettarti che qualcun altro lo faccia per te.