Nascoste per bene, dentro alla mia cameretta, ci sono sette scatole speciali.
Una volta contenevano scarpe, oppure vestiti, o forse ancora dei piccoli elettrodomestici, ma oggi racchiudono tutta la vita che ho vissuto fin qui.
Come una piccola formichina ho accumulato tante cose, anno dopo anno, stagione dopo stagione, riempiendone una alla volta e cercandone sempre di nuove.
Biglietti aerei, biglietti del treno, biglietti del bus.
Pezzi di scotch, come quello che avevo legato intorno al cerchio durante il mio primo mondiale, pezzi delle mie compagne, pezzi di me.
Ritagli di giornale, foto e cartoline.
Ricordi, immagini, dolori.
E body, poi ci sono i body, che sono come le copertine di tutte le mie storie e che da soli sono sufficienti a riportarmi indietro, e a farmi sentire come quando li ho toccati per la prima volta.
C’è il primo in assoluto, che adesso è piccolissimo, e che è dello stesso colore del cielo. Me lo avevano dato, perfettamente identico a quello di tutte le altre, nella palestra del mio paesino, dove ho iniziato a fare ginnastica.
Ero uno scricciolo tutto pelle e ossa, con più riccioli che pensieri in testa, e con più idee che tempo per realizzarle.
Un casco enorme di capelli indisciplinati, che cercavo di legare in una coda stretta, e che scappavano dai lati, come se fossero dotati di una vita propria.
Il body era quello del corso per principianti, quello che più base non si può, e oltre a riportare alla mente la felicità che provavo quando ce l’avevo addosso, mi ricorda anche che, per me, la ginnastica è davvero una cosa seria, e che la leggerezza dei gesti non è affatto dovuta, ma è un traguardo conquistato nel tempo.
Quegli attrezzi erano così strani, più grandi e più pesanti di quel che ero io.
Se dovessi sceglierne uno che, più di tutti gli altri, ha saputo lasciare il segno su di me sono le clavette, che sono dure, che fanno male, e che mi hanno regalato una bella collezione di bernoccoli mentre cercavo di imparare come usarle.
All’allenamento mi accompagnavano sempre la nonna o il nonno, e poi restavano lì, pazienti, ad aspettare che finissi, e sono certa che fossero particolarmente felice dello spirito con cui mettevo piede in palestra, ogni mese più frequentemente.
A me non importava delle Olimpiadi o di diventare brava.
Non sognavo di diventare una campionessa.
A me piaceva provare gli elementi, piaceva stare in pedana, piaceva giocare e fare fatica. E mi piaceva farlo per me, e per me soltanto.
Lavorare sui difetti mi ha sempre fatto sentire a posto con la coscienza, per quanto possibile. Non ho mai avuto il carattere forte per buttarmi a cuor leggero senza sapere di preciso cosa ci fosse oltre la mia siepe.
“Sarà quel che sarà” è l’esatto contrario del mio modo di pensare.
Forse per questo, la ginnastica è diventata una fetta consistente della mia vita fin da subito, quando ero ancora con il club, a Ferrara, anche se non cullavo affatto ambizioni di grandezza. Ero felice di fare quel che facevo, volevo farlo bene, e per farlo bene, mi serviva passare tante ore ad allenarmi. Semplice.
Ho iniziato da individualista, più o meno come tutte quante, ma dentro di me ho sempre saputo che quella non era la strada giusta per me.
Mi mancava qualcosa.
Nello sport come in tutto il resto non sono mai stata una ragazza super-mega-sicura, anzi, e tutti i dubbi che avevo sulle mie qualità, nonostante il lavoro fatto durante gli allenamenti, si tramutavano in solitudine non appena iniziavo il mio esercizio.
In pedana, prima di scoprire la squadra, non mi sono mai sentita una protagonista al centro della scena, mi sono sempre sentita sola.
A prescindere dalle mie incertezze, le tante ore passate in palestra cominciavano a portare i loro frutti, e un giorno, quasi senza che me accorgessi, mi sono ritrovata a fare parte del gruppo nazionale.
Il body azzurro è finito nella scatola più vecchia e impolverata, e me ne hanno consegnato uno diverso che, anche se non era stato pensato per me, addosso mi stava da dio. Erano appena finite le Olimpiadi di Rio e, a metà strada tra il salutare le ragazze che avrebbero lasciato le farfalle, e l’accogliere quelle che ci sarebbero entrate, venne organizzata un’esibizione congiunta, in cui ammirare insieme il passato e il futuro della nazionale.
Noi “nuove” non avevamo ancora un body nostro-nostro, e allora ci hanno dato quelli olimpici di rappresentanza del gruppo di Rio, che magari non era scintillante come quello di gara, ma che aveva lo stesso profumo di un sogno.
Indossarlo è stato come mettersi addosso una nuvola e, come un antipasto, mi ha fatto assaggiare il sapore di tutto quello che avrei provato e che avrei scoperto nell’avventura che stava per cominciare.
Poi, infine, sono arrivati i body pensati proprio per me, quelli con il mio nome dentro, e, insieme a loro, finalmente, è arrivata anche la squadra.
Per la prima volta in tutta la mia carriera mi sono sentita al posto giusto, al momento giusto. Il pezzo che mi era sempre mancato si è materializzato all’improvviso nei volti e nei sorrisi delle mie compagne.
Ho scoperto di essere nata per far parte di una squadra.
L’ho capito subito, appena dopo essere entrata in gruppo, perché di colpo, in pedana, non mi sentivo più sola, e non avevo più alcuna paura di sbagliare.
La squadra ti fa sentire protetta, ti fa sentire capita.
La squadra ti aiuta sempre, e lo fa con maggiore convinzione proprio quando nei hai più bisogno. È un’orchestra, piena di voci e caratteri diversi, che quando fanno click diventano capaci di sinfonie bellissime, di canti e di parole, per le quali a volte non serve neppure aprire la bocca.
Uno sguardo, un occhiolino fugace, una carezza o una pacca sulle spalle: niente mi ha mai fatto sentire tanto “giusta” e tanto realizzata, quando si parla di sport, quanto stare insieme a loro.
Ero figlia unica e poi non lo ero più, con il legame tra noi che si faceva, e si fa tuttora, sempre più forte, che più ne hai e più ne vuoi, come se fossimo sorelle.
Viviamo insieme, ci alleniamo insieme, mangiamo insieme, ci ritroviamo insieme a studiare quando ormai è notte fonda, oppure sfatte, fianco a fianco, dopo un volo di 10 ore o un allenamento di 8.
Eppure abbiamo ancora voglia di andare in vacanza insieme.
Di uscire a cena, o di andare ballare, insieme.
Ho capito che quello era il posto giusto per me quando mi sono accorta che, in pedana, non mi importava niente di un errore delle altre, che non mi scocciava affatto dover ripartire o ricominciare da capo, anche se io ero stata perfetta. Ho capito che era il posto per me quando mi sono accorta che la mia sola preoccupazione era quella di non sbagliare io, perché ho troppo a cuore la fatica delle altre, per accettare di fargliela sprecare.
E sì, succede ancora di sbagliare e di sentirsi in colpa.
Succede di emozionarsi e di sentire le gambe tremare incontrollate.
Ma quando alzo lo sguardo mi tranquillizzo al volo, perché vedo che siamo noi. Noi che insieme siamo fortissime, e che abbiamo già condiviso tutto quello che delle atlete potranno mai condividere nel corso di 100 carriere.
Fatiche, paure, rinunce, sogni, nottatacce, gioie.
Dalla tristezza del Mondiale perso in casa alla gioia del podio olimpico, sul quale chiunque di noi è salita perfettamente consapevole della strada che ognuna delle altre aveva fatto per arrivare fin lì: il punto più alto, quello più basso, e qualunque cosa ci sia stata nel mezzo, tra i due.
Io, nel frattempo, continuo ad ammassare ricordi e a riempire scatole per il futuro, sapendo che un giorno, un giorno molto lontano, le aprirò di nuovo, insieme a tutte loro, e passerò il tempo a raccontare le storie dei miei body e dei miei ricordi, anche se le conoscono già. Anche se c’erano.