“You are not just a basketball player”.
Il cuore dei miei genitori è sempre stato al posto giusto, e ora che anche io sono un papà, spero che il mio non sia mai da meno.
Se lo sport è bello, allora il basket lo è ancora di più: un micro-universo di cose in costante movimento, in cui le relazioni tra persone si incastrano con la volontà del singolo, alla ricerca di un equilibrio lungo un’azione.
O poco più.
“You are not just a basketball player” è stato un po’ il mio mantra, il sapere che mi è stato trasmesso, in parte per convinzione, in parte per necessità.
E funzionava.
Funzionava quando dovevo convincere me stesso ad andare alle lezioni di tromba, anche se imparare a suonare mi sembrava noioso e poco utile ai miei sogni futuri.
Funzionava quando il mio essere un nerd mi aveva reso poco popolare con i compagni di scuola.
Funzionava quando suonava la sirena di fine partita, a Michigan State, e le 15 mila persone che riempivano gli spalti tornavano alla vita di sempre, e altrettanto dovevo fare io, che non ero e non sono soltanto un basketball player.
© ACB Photo S.Gordon lpr
Ho sempre avuto qualche limite nel rapporto con gli altri: la socialità, da piccolo, non era la mia arma migliore. Ero sempre leggermente a disagio: un imbranato dall’animo gentile, da cui gli altri giravano al largo, anche più del necessario, almeno finché non iniziava la stagione sportiva.
Lì, invece, alla prima palla a due, tutti erano contenti di essere in squadra con me.
Ma della differenza tra l’una e l’altra cosa, ho scelto di non fare una malattia.
Mi piaceva stare in famiglia, ed ero felice nel consumare la piccola montagna russa per bambini che avevamo montato in giardino. Avanti e indietro, come se fossi a Disneyland.
Mi piaceva studiare, e fare del mio meglio per essere un bravo studente.
E mi piaceva andare in chiesa, anche 4 volte nella stessa settimana.
Per tenere la vita semplice, i pensieri al loro posto, e la rettitudine come guida.
Da quando son nato, non ho conosciuto fede diversa.
Quella della mia famiglia era la mia, e, con il tempo, la mia è diventata quella della mia famiglia. Quando una cosa ti viene imposta, ed è una parte così importante della tua vita, diventa difficile capirla per davvero.
Farsi un’idea propria.
Avere un approccio critico.
Io non conoscevo altro all’infuori di quella Parola, ma il destino ha voluto che quando mi sono ritrovato da solo, libero di porre al Mondo una domanda qualsiasi, io abbia trovato riparo e conforto nelle risposte di sempre.
Non ho mai perso contatto con la fede, non ho mai sentito il bisogno di crearmi una via diversa, anche se la ricerca, poiché sincera, non è sempre stata indolore.
Nel diventare un adulto ho scoperto che ci sono dei confini morali, delle prassi e delle regole di comportamento che sento in maniera diversa rispetto ai miei genitori e a come sono stato cresciuto.
Sono gli aggiustamenti dell’uomo alla strada che incontra, al futuro che arriva, e a quelle piccole/grandi esperienze personali che non possono, in alcun modo, uscire dal perimetro delle proprie emozioni.
Ho scoperto che ci sono aspetti del mio carattere che faccio fatica ancora ad arginare, altri con cui sono in pace, e che per essere centrato non posso smettere di ricordare a me stesso che non sono soltanto un atleta.
Sono molto di più.
Sono soprattutto un essere umano, fatto di carne e di relazioni, fatto di momenti e di idee. Un uomo che si appoggia sugli altri per essere completo, e che agli altri da appoggio, quando vuole loro bene.
È stata questa certezza, come un ancora, a farmi restare in piedi, sul pontile della mia nave, mentre fuori era bufera.
Tempesta buona e tempesta cattiva: lo sport sa essere generoso quanto crudele.
Un po’ Babbo Natale e un po’ esattore delle tasse.
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Penso agli anni di college, e penso allo straordinario livello che ho potuto toccare con mano a Michigan State. È stato soltanto durante il mio junior year che ho capito che il basket sarebbe potuto diventare qualcosa in più di una semplice passione.
Una passione per cui mi sono sempre allenato duramente, ma che fino a quel momento non aveva mai definito il mio essere.
In quel momento ho iniziato a spingere sempre di più in plaestra, a guardare video su video, a lavorare sui miei difetti, pur di darmi una chance al livello più alto.
E chissà cosa sarebbe successo senza le lezioni di tromba, senza la chiesa e senza la leggerezza che ho sempre sentito in famiglia.
Chissà se investire tutto me stesso nel basket prima di allora mi avrebbe consumato troppo.
Penso anche a quello che ho provato quando sono andato undrafted, e ho iniziato un rapporto di amore e odio con l’NBA. Un giorno nella lega di sviluppo, e un giorno tra i grandi ma con un contratto senza garanzie: non mi sono mai sentito davvero parte del sistema.
Sono venuto in Europa, anche se non era quello che volevo fare davvero, e la prima stagione qui, ad Avellino, in Italia, è stata un mezzo disastro. L’ultimo grande ostacolo sulla strada di casa.
Perché anche se quella dei miei genitori è in Michigan, oggi so che la mia casa è dove siamo io, mia moglie e i miei figli, e non c’è nulla che possa davvero farmi sentire lontano da loro.
Scosso dagli infortuni e frustrato da un basket che non riconoscevo, molte volte ho pensato di rinunciare, ed in ognuna di esse ho sempre trovato il sorriso di Anna ad aspettarmi, paziente e dolce, all’altro lato del tavolo.
Mi doleva tutto: il corpo, l’anima, il cuore.
Ma lei non cambiava, più fedele al mio sogno di quanto lo sia mai stato io.
Lei mi ha ricordato che non sono “just a basketball player” e che, proprio per questo, devo avere il piacere di inseguire i miei obiettivi in campo.
Senza l’affanno di chi deve ritrovare in un tabellino tutto il proprio valore.
E all’improvviso tutto si è allineato: ho iniziato a guardarmi intorno per davvero e a realizzare che il livello del gioco, in Eurolega, è altissimo.
Si gioca un basket consistente, pieno di veterani e di idee.
Da quando sono in Spagna mio nonno, che era un grand appassionato, ha smesso completamente di guardare l’NBA, perché dice che niente tocca il livello dell’ACB e dell’Eurolegue, campionati dove per vincere hai davvero bisogno di tutti.
Mi sono sentito e mi sento parte di qualcosa, parte di una comunità.
Parte di un modo di intendere il basket e la vita.
A Vitoria stiamo bene, e anche se tutti mi fanno notare che è il pezzo di Spagna con il clima meno accogliente, io rispondo che vengo dal Michigan, e che nel freddo mi trovo alla grande.
Riesco a connettermi con le persone, non soltanto quelle che gravitano intorno alla squadra, al punto che sto persino imparando qualche parola di spagnolo.
Non raggiungerò mai i livelli di Anna, che lo parla già fluentemente, ma questo processo aiuta a farmi sentire al posto giusto, felice di avere il “miglior lavoro al mondo”.
Un lavoro che non conta quanto la mia famiglia o quanto la mia fede.
Un lavoro che è decisamente più divertente di suonare la tromba.
Un lavoro che ti regala emozioni e tispezza le ossa con la stessa facilità.
Un lavoro che meno consideri un lavoro e meglio fai, perché nessuno di noi è soltanto un “basketball player”.