Matteo Marconcini

Matteo Marconcini

11 MIN

Lo sport fa bene.

Certo che fa bene!

Fa crescere sani e forti. Soprattutto sani!

Fino a che non diventa un mestiere: perché se diventa un mestiere allora smette di essere un toccasana, diventa durissimo e ti chiede tanto, a volte tantissimo.

Ho iniziato a fare judo nel lontano, ahimè, 1992 e da allora questo è, per riassumere, il mio bollettino di guerra:

  • Una pubalgia martellante
  • 3 operazioni per riaggiustarmi le spalle
  • Centinaia di problemi muscolari sparsi negli anni
  • Un tendine del pollice che è ancora staccato perché non ho avuto il tempo di riattaccarlo.

Ma c’è poco da fare: se sei un combattente ti devi rialzare subito, un po’ per carattere, un po’ per dovere. E io, ovviamente, l’ho sempre fatto.

Fino a che non l’ho fatto più.

Fino a che mi sono sentito così a terra da non averne più la forza.


Quello che vorrei condividere con voi è un episodio della mia carriera che è stato così lungo e così decisivo da essersi trasformato in qualcosa di più: è diventata la definizione stessa di un periodo della mia vita. Un capitolo lunghissimo, complicato ed esaltante insieme.

A metà 2015 ero, come tutti gli atleti del Mondo o quasi, impegnato a cercare di conquistarmi a suon di legnate il mio posticino per le olimpiadi di Rio. Come accade in tanti sport anche nel nostro la qualifica si ottiene sommando i punti che riesci a raccogliere nei diversi tornei, nelle tappe di Coppa del Mondo e quant’altro.

Per cui nella primavera di due anni fa, a 14 mesi dall’inizio dei Giochi, ero in Romania alla caccia della mia qualificazione. Vinco i primi 3 incontri, al 4° mi attendeva il tedesco Muennich e, devo essere sincero, avevo un po’ di timore ad incontrarlo. Ce l’avevo perché in un precedente incontro a Roma mi ero già fatto male alla clavicola combattendo contro di lui.

Perché usa la tecnica conosciuta come Seoi-otoshi: si inginocchia a terra, cerca le prese da quella posizione per prenderti e ribaltarti. Tu per non perdere cerchi di non cadere sulla schiena, subiresti un ippon, ed esponi così il resto del corpo ai rischi della caduta.

Esattamente l’opposto di quello che ti insegnano da piccolino.

Quel giorno, in Romania, è successa la stessa cosa. La stessa identica cosa: solo più grave.

La spalla era uscita e poi rientrata tutta.

Ho fatto finta che non fosse successo ed ho vinto al golden point, fregandomene del dolore.

Dolore che poi mi è piombato addosso in tutta la sua cruda verità ad incontro terminato.

Siamo tornati in Italia e sono andato a farmi visitare dal mio ortopedico di riferimento. La sorte ha voluto che, mio malgrado, lo frequentassi più di alcuni amici d’infanzia.

Il referto era una mazzata: ennesimo intervento, il terzo, alla spalla.

E qui il tempo si è congelato per un attimo.

Operare una spalla vuol dire: dolore, fatica, terapie, sofferenze, frustrazioni pazzesche, mesi e mesi di lotta per tornare ad essere quello che sei sempre stato.

Ti fai un mazzo così non per diventare migliore ma solo per tornare ad essere quello che sei sempre stato.

Ho iniziato a sentire tutte quelle frasi di rito, sincere ma non per questo meno fastidiose, dette da chi non sa bene cosa voglia dire una cosa del genere:

Non mollare! Tornerai più forte di prima! Vedrai che ce la farai!

Ma sono come la storia di “al lupo, al lupo” a furia di sentire un grido d’aiuto dopo un po’ non credi più che sia sincero e tutto finisce con lo scivolarti addosso senza sapore o odore.

Matteo Marconcini

Ero stanco, sfinito. Sentivo sulla mia pelle e nelle mie ossa tutto il peso enorme della responsabilità: verso i carabinieri, verso la mia famiglia, la mia federazione. Verso me stesso.

Nella macchina che mi riportava verso la caserma c’era il coach che mi aveva seguito in Romania, lui è stato costretto dai tanti problemi fisici a smettere presto e per questo sentivo in quel momento un legame profondissimo tra noi.

Lui mi poteva capire.

Perché le parole di conforto saranno pure sincere ma solo chi è stato costretto ad andare ripetutamente sotto i ferri sa dire quando il serbatoio è vuoto o pieno, a prescindere dai pezzi meccanici da sostituire.

Lui non disse niente infatti.

Ma so che mi capiva.

 

Così tornatomene nella caserma, dove tutti si stavano già arrovellando il cervello, spremendo le meningi per crearmi un piano di recupero ad hoc, io stavo solo cercando le parole giuste per dir loro che: basta, io smettevo.

Niente Rio, niente qualificazioni, niente più tatami.

Fine.

Non volevo più saperne.

Non volevo più saperne di tabelle di recupero, di terapie lunghe quanto il giorno intero, di dolori post intervento, di pressioni e di aspettative.

Volevo solo trascorrere un estate in vacanza, riposare e ricostruire il mio umore, poi a settembre mi sarei operato, per tornare a fare sport certo, ma finalmente lo sport amatoriale, quello che fa bene.

Quello e stop. Tutto qui.

Io ero e sono più di un atleta, sono anche altro. Ed era il momento di riconnettermi a questo “altro” e goderne un po’ i benefici.

Ho passato un’estate magnifica e poi mi sono operato il 15 settembre.

Fine delle trasmissioni.


Nel frattempo però qualcosa è successo nella mia testa, qualcosa di inaspettato e bellissimo.

L’operazione era andata magistralmente bene, oltre ogni aspettativa, e sapere già (per i miei sfortuni precedenti) tutti i passi che mi sarei trovato a dover fare per guarire mi ha spronato a prepararmi al meglio sia fisicamente che mentalmente.

Per farla breve, grazie anche al sostegno del mio fisioterapista dei carabinieri, uno di quelli che mi vuole davvero bene, così bene da ignorare persino di rispettare la mia volontà, io a dicembre ero già come nuovo fisicamente.

Non è cosa da poco da parte di un amico: combattere contro di te per il tuo stesso bene, ed io gliene sono grato.

 

La testa nel frattempo era cambiata, diventando serena e calma.

Aver detto basta mi aveva riconnesso al piacere di fare sport, quello quasi infantile, e quindi è stato un attimo tornare a fare judo, questa volta però senza nessuno scopo vicino o lontano: solo puro divertimento.

Mi sono rimesso a dieta e ho perso 8 chili: per me stesso, mica per altro.

Tutto insomma sembrava essersi incastrato perfettamente dopo il ritiro, l’equilibrio tra la serenità tanto cercata e le pressioni tanto indigeste era finalmente trovato ed io sul tappeto mi divertivo come facevo da bimbo.

 

Tra il serio ed il faceto a metà gennaio 2016, quindi a pochissimi mesi dalla delicata operazione e pochi di più dal mio ritiro, si apre uno spazio in una gara di Coppa del Mondo e mi chiedono se sono interessato.

Non so dirvi il perché, che cosa sia scattato.

Non so se la bocca diceva: ho smesso, ma il cervello rispondeva: no way!

Non lo so!

Ma ci sono andato. A cuore super leggero.

E ho vinto.

Cioè in soldoni: il mio miglior risultato di sempre! Incredibile a dirsi, doveva essere giusto una scampagnata.

Ma io ero un atleta nuovo!

 

Il peso della vittoria era comunque relativo, valeva pochi punti ed io con la testa mi sentivo ancora un amatore che si divertiva.

Non ci credete? Beh sentite questa e ditemi se è professionismo oppure no:

sempre per divertimento decido di fare una seconda tappa, senza nessun obiettivo particolare dichiarato: Casablanca, Marocco. Solo che per motivi logistici i carabinieri non avevano un mezzo per accompagnarmi in aereoporto e così ci sono andato in scooter: un bestione come me, sul motorino col borsone, direzione Fiumicino.

Questo dà anche bene l’idea del clima sereno e leggero che respiravo intorno a me.

A Casablanca ancora benissimo sul tatami: terzo.

Matteo Marconcini

Rio restava un pensiero lontanissimo, quasi impercettibile.

Nel ranking ufficiale galleggiavo in 70° posizione circa ed alle Olimpiadi ci andavano i primi 23, un posticino saltava fuori dall’Europeo ma il nuovo coach della Federazione non mi conosceva e non mi ha nemmeno convocato.

Ci andò Fabio Basile, che poi Rio lo vinse!

 

A me di Rio importava poco nulla, ma il fatto di non essere neppure nella lista del nuovo allenatore mi ha fatto imbestialire di brutto e sono andato a confrontarmi con i piani alti, dove, tra le altre cose, mi dissero:

su su, sei forte, magari vai a Tokyo 2020

Un drappo rosso sventolato davanti al toro.

 

Se prima ero spensierato e leggero, all’improvviso ero stato travolto dalla voglia di lasciare tutti storditi e fare qualcosa di incredibile!

Dammi una chanche!
Una chanche soltanto!
E ti faccio veder io Tokyo!

Questo pensavo.

 

In soldoni la situazione era questa: mancavano due tappe prima di Rio e per fare i punti necessari a qualificarmi avrei dovuto fare più punti di quanti ne avessi mai fatti prima in carriera, anche più di quand’ero sano.

La mia federazione ci credeva il giusto, al punto che mi avevano iscritto solo alla prima tappa ed alla seconda sarei andato solo nel caso in cui avessi già portato a casa una medaglia pesante.

Ed io ero appena tornato da 5 mesi di calvario e dal ritiro ufficiale.

 

Prima tappa a Baku, terzo. Per il livello della competizione sicuramente il mio miglior risultato di sempre, per la seconda volta di fila.

 

Ultima tappa Almaty, devo arrivare in finale almeno per qualificarmi e ce la faccio in un clima surreale dove tutti gli atleti sono accalcati spalla a spalla a guardare i punteggi sui tabelloni per vedere se erano dentro o fuori le Olimpiadi.


Ed è così che con una rincorsa pazza e in parte anche inconsapevole ho strappato il mio pass per le Olimpiadi.

Ora trovare una morale a tutto questo non è facile, forse neppure necessario.

Certo è vero che non è finita finchè non è finita.

Ma forse ciò che più di ogni altra cosa mi è rimasto addosso da questo capitolo straordinario, oltre all’ennesima cicatrice indesiderata, è la consapevolezza di quanto un atleta porti sulle proprie spalle.

Le aspettative, le tue e quelle che vengono riposte in te da altri, l’ansia del risultato, il desiderio di non deludere: tutto questo si compatta in un grosso blocco, come una macchina che viene rottamata e fatta a cubo e ti viene piazzata sulle spalle.

Un macigno invisibile e pesantissimo che ti trascini dietro sempre e che riesci ad appoggiare a terra solo quando hai il coraggio di dire basta.

Io sono più forte di quello che ero con quella roba sulle spalle.

Sono felice di averlo fatto vedere a tutti.

Soprattutto a me stesso.

Matteo Marconcini / Contributor

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Matteo Marconcini | Indoor | The Owl Post
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Lo sport fa bene. Certo che fa bene! Fa crescere sani e forti. Soprattutto sani! Fino a che non diventa un mestiere: perché se diventa un mestiere allora smette di essere un toccasana, diventa durissimo e ti chiede tanto, a volte tantissimo
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