Aloha: ciao, arrivederci, amore.
Venire da dove vengo io è una premessa forte. Un messaggio indelebile.
Un graffito sul muro, creato da un Artista Santo che sta sopra di noi. Che appare così bello e semplice se visto da lontano, ma che, osservato da vicino, è composto da molti strati complessi.
Di una cultura si ricordano spesso solo i luoghi comuni, quel misto di verità talmente più vere del vero da diventare leggenda. Gli italiani mangiano solo la pizza, gli americani soltanto gli hamburger e gli inglesi il fish and chips servito con il thè.
La cultura però è una cosa viva, non è un fossile ritrovato scavando sottoterra, non è un reperto storico da esporre in un museo. Sicuramente storia e tradizione sono il fondamento su cui una cultura viene costruita, ma la cultura stessa è un organismo vivo che respira e che cambia con il tempo, con il passare anche di un solo minuto all’aria aperta.
La cultura si contrae e si allarga, si trasforma e si inquina, come un cervello unico che ci passiamo a vicenda una generazione dopo l’altra. La cultura è una coscienza collettiva e proprio perché è collettiva è aperta a tutti, da tutti può essere attaccata e da tutti, allora, deve anche essere difesa.
Io sono un nativo delle Hawaii. Sono nato e cresciuto in uno dei posti più belli del Mondo ed è lì che ho imparato a rapportarmi con l’esterno e con le persone che incontro.
Ovunque è possibile imbattersi nei luoghi comuni, tanto positivi quanto negativi, espressi nei confronti di un Paese e dei suoi abitanti.
Succede dappertutto e, viaggiando molto, mi è capitato spesso di vedere qualcuno soffrire per questo.
È il modo che troppo spesso usiamo per convincere noi stessi di sapere le cose, di capirle tutte. Fare una vacanza non significa conoscere una terra straniera, saper usare le bacchette per mangiare il sushi non vuol dire sapere come mangia un giapponese tra le mura di casa sua.
Nel mio caso si è quasi sempre trattato di semplici banalità, piccole convinzioni che le persone hanno sulle mie adorate Hawaii.
Se vieni dalle Hawaii a volte ti chiedono, soprattutto i bambini, se vivi dentro delle case fatte di legno in riva al mare e se ti sposti su una canoa. La prima volta che l’hanno chiesto a me avevo 15 anni e non ne fui assolutamente offeso, ma sorpreso.
Le persone sono persone ovunque.
Ovunque puoi trovare i poveri e quelli che non hanno accesso ad una buona educazione esattamente quanto puoi trovare persone profondamente scolarizzate e dirigenti d’industria.
In ogni cultura c’è semplicità e sofisticazione, c’è ricchezza e povertà, ci sono fede e scienza.
Quello che forse si può trovare in più nella cultura hawaiana è l’apertura mentale, che esiste già nei bambini ed è il dono di una terra unica e variopinta.
Può che quando qualcuno scopre che arrivi dalle Hawaii ti guardi come se fossi l’uomo più fortunato che lui abbia mai incontrato, senza neppure sapere chi sei o che cosa hai affrontato nel corso della tua vita. La forza delle nostre isole è un’estrema gratitudine che tutti proviamo perché viviamo in un tale paradiso ma questo non significa che tutto sia semplice alle Hawaii.
Come se alzarsi la mattina in un luogo di tale bellezza fosse sufficiente per sentirsi a casa, al riparo dallo stress e dalle sofferenze. Come se dentro una natura così magnifica fosse impossibile soffrire oppure essere egoisti o precipitosi.
Gli hawaiani sono calmi e ospitali, sono grati e generosi, ma non lo sono per osmosi con l’ambiente, o per merito di una misteriosa forza che li attraversa e li comprende tutti.
Siamo capaci di accompagnare la vita con un ritmo docile, di apprezzare la natura e la socialità, in maniera diversa ma sincera in entrambi i casi.
Non siamo così per merito della nostra provenienza geografica, ma lo siamo per la profonda influenza della cultura tradizionale dell’isola, che amiamo e rispettiamo noi per primi, senza la pretesa che lo facciano gli altri per noi.
Dopo essere stati annessi agli Stati Uniti da noi era persino vietato parlare l’originale lingua hawaiana. Molte cose che nella nostra terra appartenevano alla vita quotidiana sono morte lì, perché fuorilegge, perché diverse.
Di questo abbiamo fatto un enorme punto d’orgoglio, un motivo d’unione e di perdono.
Quando io ero piccolo nella mia città, nel mio quartiere, nella mia classe c’erano bambini provenienti da ogni diversa nazione possibile, eppure tutti si sentivano anche profondamente hawaiani; come me. Filippini, samoani, irlandesi, italiani, inglesi, giapponesi, cinesi: le nostre isole sono il melting pot del Mondo.
Terra che accoglie tutti senza distinzione né pretesa di omologazione ma che lascia dentro al cuore di ognuno il segno indelebile di che cosa significhi farne parte attivamente.
La cosa della mia infanzia che ricordo con maggiore senso di pace è la sensazione che provavo alle grandi feste famigliari, nelle quali si trovavano anche 60 o 70 persone, perché a casa mia radunarsi in “famiglia” significava mettere sotto lo stesso tetto tutti quelli a cui volevi bene, a prescindere dal vero grado di parentela.
E io chiamavo tutti zio e tutti fratelli, zia e cugino.
Se cresci dentro una società del genere, dentro città e villaggi che tutti, non importa da dove arrivino, hanno il pieno diritto di chiamare casa a voce alta, allora di sicuro coltivi una mentalità aperta, allora di sicuro da uomo adulto la tua curiosità ti precederà sempre.
Per questo gli hawaiani sembrano sempre sereni e calmi, per questo sembrano immuni alle tensioni e alla pressione: perché sanno amare.
Sanno amare sé stessi e gli altri.
Perché se vivi in un posto dove ognuno mantiene una cultura diversa, delle abitudini e delle usanze differenti, devi imparare che la distanza tra te e gli altri non è un conflitto, non per forza. E nell’impararlo, qualche volta sbaglierai, e sarà importante per te ricevere l’amore degli altri e perdonare te stesso.
Il profondo senso di appartenenza che proviamo tutti, un cordone ombelicale che non si stacca mai, nasce qui, dentro la testa di ogni bambino che ci cresce: perdona e sarai anche perdonato, perché tanto siamo uniti da qualcosa che è impossibile recidere.
Aloha: che vuol dire amore, che vuol dire affetto, pace; che vuol dire buongiorno e arrivederci, è una parola a cui ognuno di noi dà una sfumatura diversa ma che tutti indistintamente utilizziamo.
È ciò che dalla nostra terra ci sale dentro, dal suolo, e ci esce fuori, dalla bocca.
Può voler dire sia compassione che gratitudine, e a guardarle da vicino assomigliano davvero a dei sinonimi.
È una parola che le racchiude tutte.
Quando sono arrivato in Italia mi sono reso conto che, sì è vero, la pizza la mangiano tutti, ma se ti sposti 100 chilometri a destra o a sinistra sulla mappa puoi vedere quante differenze ci siano tra un posto e l’altro. Mi sono accorto del fatto che molti qui sentono di appartenere ad una città o una regione prima che ad uno Stato.
Il cambio di vita per me è stato gigantesco e ha investito le mie cose grandi e le mie cose piccole.
Prima di tutto la lingua: in pochi qui parlano inglese e io desideravo davvero riuscire ad esprimermi correttamente in italiano. Ma nella vita di mestiere ho deciso di fare l’atleta e l’atleta punta per definizione sempre alla perfezione del gesto tecnico e di quello atletico. È normale.
Nell’imparare una lingua difficile come la vostra questo non è possibile; fare degli errori è parte del processo e io facevo fatica ad accettare di dover sbagliare.
Lo sportivo impara presto a convivere con le piccole imperfezioni quotidiane, con gli errori, che possono anche essere generati dalla qualità dell’avversario, e trova il suo equilibrio tra la capacità di considerarli naturali e quella di ambire a non farne più.
Ma io a parlare italiano ero un vero disastro e in questo la mia timidezza di certo non ha aiutato molto, almeno all’inizio. Poi ho imparato, ancora una volta, a perdonarmi ed accettare di non poter sempre essere perfetto, anzi.
Nei primi sei mesi trascorsi in Italia sono un pochino ingrassato, senza ovviamente farlo apposta. Ma nella mia cultura non si dice no a nessuno, perché ci si fida sempre dell’intenzione dell’interlocutore. Per questo a chiunque mi offriva un secondo piatto di pasta ero costretto a dire sì, tutte le volte, perché volevo essere ospitale.
La vostra è una cultura nella quale la tavola è sempre imbandita e l’ospite deve sempre avere a disposizione qualcosa da mangiare, la mia invece mi impediva di dire no e mi obbligava a non lasciare mai nulla sul piatto da finire.
Sono dovuto uscire un po’ dal mio guscio, sono dovuto scendere a patti con me stesso ed imparare a dire qualche no, a rifiutare qualche invito. Ho imparato che l’italiano non solo storce il naso quando mi vede mettere del formaggio sopra il mio risotto col pesce ma che può persino sentirsi leggermente offeso, perché così rovino la sua creazione.
La mia prima stagione italiana è stata anche la mia prima stagione in assoluto come professionista nel mondo del volley ed è stata una rivoluzione rispetto a quello che conoscevo prima.
Niente pareggia la pressione della Superlega Italiana. Niente.
Quando ero parte della squadra del college, a USC in California, non giocavamo per soldi, o per il nostro nome scritto sul retro della maglietta, ma per ciò che c’era scritto davanti. È diverso dal concetto di una squadra di club, che ha degli obiettivi da raggiungere e che può essere cambiata in corso d’opera durante il tragitto, il college è più come una fratellanza, la condivisione di una scelta, alla quale finisci per appartenere e della quale sarai un rappresentante per sempre.
A prescindere dal giocare bene o male, dal restarci un anno soltanto oppure quattro.
Da giovane, arrivando in Nazionale molto presto, avevo imparato che la pressione esiste solo se te la crei nella testa, se non vuoi che ci sia allora non c’è, sparisce.
Poi ho iniziato a giocare da professionista.
E sono arrivato in Italia.
È tutto è un po’ cambiato.
Qui tutto è importante all’ennesima potenza.
Ogni singolo punto pesa tantissimo.
Mi ricordo ancora la mia prima finale di Coppa Italia, stagione 2016/2017, tutto era così pesante in campo, ogni palla, ogni alzata, ogni muro: tutto contava enormemente.
È stata come una partita fatta di soli match point. Ancora oggi ricordo gran parte dei singoli punti di quella partita. Quel livello di attenzione furiosa mi ha sorpreso e obbligato ad innalzare il mio.
Anche quando giochi con la nazionale la canotta è molto pesante, sai che tutti quanti ti guardano, ma lì esiste una cultura positiva, propositiva, orientata al processo, che pone l’accento sul percorso a lungo termine, sulla pulizia da mantenere nella creazione della squadra, dello spogliatoio e della singola giocata. Bisogna chiudere la partita o la manifestazione con la sensazione di avere la coscienza pulita, e basta.
In Italia e nel professionismo invece conta solo vincere, non importa come, ma si deve vincere. È una sorta di cultura negativa orientata al risultato, e lo penso e lo dico nel modo più positivo possibile.
Qui sali di livello perché ogni errore è assoluto, grave.
La stessa giocata, identica, che finisce dentro o fuori dal campo per un semplice centimetro può essere considerata perfetta oppure fallimentare.
Il focus è super tecnico ed è centrato sui dettagli anche minimi, perché le cose grandi le fanno bene tutti in Superlega, nessuna squadra e nessun giocatore escluso.
Questo modo di vivere il volley si può considerare sano oppure no, ma è ciò che ti permette di alzare il tuo livello al massimo possibile, se non ti spezzi sotto la pressione allora cresci e diventi un giocatore migliore.
Per questo poi in campo, questo campionato, è un tale spettacolo; per questo nessuno si accontenta mai di nulla e le squadre sono sempre alla ricerca del più piccolo particolare da modificare, del dettaglio nel dettaglio. È una sfida quotidiana, una gara ad eliminazione e devi sempre, sempre vincerla per non essere eliminato dalla corsa.
Tra le mie Hawaii, con il loro modo gentile e dolce di far scorrere le giornate e l’Italia c’è mezzo mondo di distanza. Sia fisica che metaforica.
Dalle due culture cerco di prendere il massimo per essere un uomo ed un atleta migliore.
Punto all’eccellenza in campo, usando la pressione negativa che qui si trova, abbondante, dentro ad ogni giocata.
E punto alla pace fuori dal campo, permettendo alle mie radici di profonde di darmi una stabilità che il vento non può piegare, sia in famiglia che con i colleghi.
Da fiero rappresentante del melting pot più famoso del pianeta mi godo l’ibrido incrocio di due mondi separati e distanti, che diventano un luogo perché pieni di persone.
Come me.