Mio fratello in casa è sempre stato l’intelletto mentre io invece la manodopera.
Mi piaceva, e mi piace anche oggi, sporcarmi le mani, fare le cose, crearle.
Se non fossi entrata nell’Esercito avrei fatto il muratore, o l’imbianchina forse. Di certo non sarei appassita dietro a una scrivania o davanti ad un computer: non fa per me.
E questo è stato chiaro fin da quando ero solo una bambina: a me interessava fare e visto che ero anche una di quelle pesti che ottiene tutto ciò che desidera, fermarmi era semplicemente impossibile.
Non contemplato: la storia della mia vita ne è un perfetto sottotitolo.
Per prima cosa mi sono innamorata dei bersaglieri.
Un amore giovanile e in quanto tale forte e indimenticabile.
Si aggiravano tra le strade della mia Sicilia, era l’Operazione Vespri Siciliani.
Delle vere e proprie ronde, dei presidi per controllare l’ordine pubblico, che loro portavano a termine con il portamento rigido ed elegante.
Ho perso la testa fin da subito.
Sul capo tenevano il fez, un cappello tradizionale che ha il colore caldo delle amarene mature. Si porta appena appoggiato sulla sommità della testa, in modo da lasciar cadere sulla fronte un ciuffo di capelli ordinati.
La loro fierezza mi aveva impressionato incredibilmente, ho iniziato a sognare di potermi mettere quella divisa, e non ho più smesso di farlo finché non ci sono riuscita.
Ero una bambina bravissima a piantare le unghie nel pavimento per ottenere quello che volevo. Lo facevo con una forza tale che il solo modo per staccarmi senza sollevare le assi era cedere alle mie richieste. Ma ero anche una giovane iperattiva e le idee quindi mi si accumulavano una sopra l’altra, prima nella testa e poi sul comodino.
Mille progetti, desideri. Ogni volta.
Nel 2000 io mi ero appena diplomata e il servizio militare femminile effettivo, su base volontaria, era appena stato introdotto.
I miei genitori mi conoscevano molto bene e quando mi attaccai al suolo per avere la divisa del bersagliere furono più decisi del solito nel combattere.
“Puoi, ma non subito. Questa non è una di quelle cose che inizi e lasci a metà.
Prima ti laurei e se poi ne avrai ancora voglia sarai libera di arruolarti.”
Io quindi ho dovuto aspettare altri 6 anni, fino al 2006, per potermi arruolarmi ed entrare nell’Esercito.
Per i primi 12 mesi ho svolto lavoro d’ufficio e poi, finalmente, l’anno seguente mi hanno mandato a Cosenza e ho potuto coronare il mio sogno di entrare nei bersaglieri.
Le mie mansioni di quegli anni, quello che facevo con i bersaglieri, era talmente speciale che fatico molto oggi nel non poterlo più chiamare: il mio lavoro.
E infatti io continuo a chiamarlo così. Punto.
Il mio compito, dopo aver concluso l’addestramento, era diventato quello di andare sul campo, all’estero, in alcune tra le zone più difficili e complicate.
Il mio, forse, più che un lavoro era una missione e per portare a termine una missione ti serve una vocazione. Sincera. Se non lo è non ce la puoi fare.
I primi sei mesi fuori li ho trascorsi in Afghanistan, a cavallo tra il 2009 e il 2010.
Mi bastò una sera soltanto per innamorarmi di quella terra e su quella stessa terra non bastarono lunghi mesi di lavoro duro per farmi cambiare idea.
Il primo giorno, la sera dopo il tramonto, il deserto che mi circondava fu una visione unica.
Senza l’inquinamento industriale era come se ognuna delle stelle del cielo mi baciasse la faccia. Non lo dimenticherò mai.
I militari impegnati in missione non sono lì per fare la guerra.
Perché mi è capitato di sentire anche questo, che non è la verità.
Le operazioni in cui siamo coinvolti sono quelle di peace keeping.
Niente sa essere sottile e fragile quanto una pace da costruire sopra un cumulo di macerie, di bossoli tiepidi e di lacrime. Ma bisogna farlo comunque.
Portando il proprio piccolo mattoncino a braccia nude, senza scorciatoie.
Quando sei sul campo le giornate sono fatte di 24 ore.
Anche a casa propria sarebbero 24, ma non te ne accorgi con la stessa puntualità. Perché in casa alcune ore sono leggere, sono semplici e rilassanti, a volte puoi persino spegnere la luce nella stanza.
In missione non ho mai dormito per più di tre ore a notte, e l’ho fatto sempre in divisa, non ho mai messo il pigiama.
Al terzo giorno della mia prima missione in Afghanistan ci hanno sparato un razzo dentro al campo ed ho pensato di essere finita in un film. Ma l’essere umano si adatta a tutto, a qualunque cosa, e con il passare dei giorni anche la paura si silenzia e si annacqua. La normalizzazione della paura.
Impari ad essere operativa, perché la paura ti paralizza e se non riesci ad agire allora non puoi aiutare nessuno. E rischi di diventare inutile.
Poi, quando hai finalmente capito dove ti trovi, quando inizi ad essere a tuo agio dentro al campo e per le vie della città, ecco che prende corpo il motivo per cui sei partita: aiutare la gente.
Improvvisamente ti accorgi di quanto sia importante fare quello che sei andata a fare.
Gli interventi sanitari, per esempio, il paracetamolo è un lusso, una risorsa inestimabile. E la stai portando tu.
Molte volte è successo che qualche civile rischiasse la propria incolumità pur di avvisarci che in un determinato punto della strada i ribelli avevano nascosto una bomba.
È impossibile riuscire a riassumere tutto quello che c’è da fare, e che si cerca di fare, in una missione. Esattamente come sarebbe impossibile far entrare in una sola foto tutti i sorrisi di gratitudine della gente che incontri.
Gente che non ha quasi niente e che per quel quasi deve pure lottare.
L’arrivo di un razzo è sempre anticipato da un suono forte, un fiuuu, lungo e sibillino che cresce poco a poco fino al momento dell’impatto.
Mentre di un colpo di mortaio senti solo il botto. Boom. Quando ormai è arrivato.
Io odio parlare del mio attentato. Mi scoccia non tanto perché ripensarci mi faccia soffrire o perché raccontarlo mi riporti indietro con la memoria. Lo odio perché da quel momento in poi non ho più potuto fare ciò che amavo di più, e mai potrò ambire a rifarlo di nuovo.
Era il 2012, ed eravamo nuovamente in Afghanistan, nel distretto del Gulistan, provincia di Farah. È una delle zone peggiori in assoluto perché il campo si trova al centro di una pianura e rimane circondato dalle montagne, che lo abbracciano, che lo stritolano come una corona di spine.
I mortai hanno la gittata molto lunga ed è possibile sparare verso la base rimanendo nascosti dietro uno dei versanti nascosti.
In quel giorno ero di QRF, che sta per quick reaction force.
Significa che per un turno il tuo compito è quello di fornire pronto intervento per qualunque problematica, dalla gomma bucata di uno dei furgoni fino alle cose più serie. Quel giorno mi trovavo, come sempre, sulla ralla del Lince, cioè la torretta di uno dei veicoli blindati.
Quand’è caduta la prima bomba ho preso la mia arma e mi sono diretta di corsa verso i mezzi.
A quel punto è caduta la seconda.
La seconda bomba è esplosa poco lontana da me e sono stata investita dalle schegge. Una di queste mi ha ferito alla mano, una all’intestino e la terza mi si ha preso l’arteria femorale.
Da quell’istante in poi ho iniziato a vedere grigio e pur restando pienamente cosciente non riuscivo a far altro che pensare di trovarmi all’interno di un videogioco. Non poteva essere reale. Ho perso il contatto con la realtà, nonostante sia rimasta sempre vigile.
Ero terrorizzata più che altro per la mia mano, che era stata colpita da qualcosa e grondava sangue. Quella era per me la preoccupazione più angosciante.
Alla gamba inizialmente non ho dato troppo peso, ma purtroppo la circolazione periferica nell’arto era compromessa.
Un amico mi ha preso per le spalle e trascinato giù nel rifugio anti mortaio.
La gente continuava a gridarmi di non chiudere gli occhi, di non morire.
Ma non ne capivo il motivo: e perché dovrei?
Io pensavo a tutto tranne che a quello.
Pensavo principalmente ai miei genitori e alla mia mano rovinata.
Poi mi hanno portata all’ospedale da campo e fatta arrivare direttamente in sala operatoria. Lì sono stata sedata e questa è l’ultima cosa che ricordo dell’Afghanistan.
Mi sono risvegliata giorni dopo, dentro un ospedale in Germania, senza una gamba.
Quel giorno io ho perso un pezzo.
E non mi riferisco alla gamba, ma a qualcosa di ancora più prezioso, visto che mi hanno tolto la possibilità di fare quello che per me era più importante.
Il mio primo e unico pensiero era quello di tornare là, sul campo, e non riuscivo né a darmi pace né a contare correttamente i giorni che passavano mentre ero in ospedale.
Un pomeriggio, mentre facevo zapping dal letto, mi sono ritrovata ipnotizzata davanti ad una gara di atletica. Erano le Olimpiadi di Londra 2012. Il tartan era magnifico, aveva un colore stupendo, scintillante, e la telecamera stava riprendendo a mezzo busto le ragazze pronte alla partenza dei 100 metri.
Solo in un secondo momento ho iniziato ad accorgermi che ad ognuna di loro mancava qualcosa.
Anche a tutte loro mancava un pezzo eppure a nessuno pareva importare.
Le ho guardate correre e sfidarsi con un trasporto straordinario; ho visto una donna italiana, Martina Caironi, diventare campionessa olimpica. Mi sono girata e ho detto ad un’amica che era lì con me:
voglio andare alle prossime olimpiadi e voglio battere quella donna!
Ho contattato Martina poche ore dopo essere uscita dall’ospedale e le ho chiesto se conoscesse il nome di qualcuno che mi potesse allenare a Roma.
Mi ha consigliato di parlare con Nadia Checchini e ricordo di aver aspettato due giorni per chiamarla, dopo aver trovato il suo numero, solo per non voler sembrare troppo invasata.
Pensavo che correre con una protesi sarebbe stato semplice ma non lo è stato affatto.
È come tornare bambini e dover imparare di nuovo a muoversi.
Significa affrontare le stesse paure e incertezze che affrontano loro, ma in un’età nella quale le paure fanno paura sul serio.
Ho imparato che non bastano le braccia per aprire una porta.
Ho imparato a ridere delle mie cadute buffe in allenamento, proprio come fanno alcuni bambini, perché sono all’ordine del giorno. E anche le persone che mi vogliono bene e che mi guardano allenarmi hanno imparato che una caduta non è un motivo sufficiente a preoccuparsi per me.
Preparare l’Olimpiade di Rio è stato un giro sulle montagne russe dal punto di vista emotivo, ed è stata l’occasione perfetta per imparare ad essere paziente.
Quella sulla pazienza era una lezione che negli anni precedenti avevo sempre saltato.
Mi sono resa conto che finché di una cosa ne hai un paio, non ci dai troppa importanza, ma quando te ne resta solo una, improvvisamente, quella diventa il bene più prezioso che hai.
Pochi mesi dopo aver iniziato con l’atletica infatti ho avuto un infortunio all’unica gamba che mi era rimasta, mi sono spaventata e per un anno intero non ne ho più voluto sapere di correre.
È stata la mia allenatrice, Nadia Checchini, che marcandomi stretta per tutto il tempo mi ha convinto a non mollare, a provarci di nuovo e, alla fine, sono tornata in pista.
Io non sono nata come atleta e per questo a me le Olimpiadi sembravano meno sacre di quanto non sembrassero a tutte le altre.
Ma con l’avvicinarsi dell’evento e con le emozioni fortissime provate ai Mondiali del 2015 tutto ha cominciato, lentamente, a diventare reale e in quanto tale anche irripetibile e unico.
Sono arrivata al villaggio 21 giorni prima della mia gara e li ho vissuti tutti in apnea, con una crescente tensione che mi ha accompagnata fino allo start delle batterie.
L’ansia è stata tale, durante quei giorni, da farmi persino litigare con Nadia.
Un litigio stupido, figlio del mio desiderio fortissimo che sentivo di fare la mia miglior gara possibile.
Sono entrata in finale con il terzo tempo e non riuscivo a pensare a nient’altro che alla partenza della gara più attesa della mia vita.
Non avrei mai pensato che qualcosa sarebbe stato in grado di farmi risentire addosso quel desiderio fortissimo di arrivare da qualche parte.
Di partire, soffrire e raggiungere un traguardo.
Pensavo che l’emozione di vedere un grande progetto diventare reale non mi sarebbe più appartenuta dopo l’attentato. E invece non è stato così.
Sul blocco di partenza della finale olimpica dei 100 metri a Rio 2016 ero un ostaggio paralizzato dalla tensione. Quattro anni dopo averla vista a correre a Londra, nel giorno in cui la mia vita è cambiata di nuovo, ero sulla pista quasi fianco a fianco con Martina, che nel frattempo, oltre che un mentore, era anche diventata una buona amica.
A dividerci, in mezzo, c’era una tedesca.
Bi-amputata.
Fa molta fatica lei allo sparo.
Ma quando mette in moto le leve diventa una gazzella che salta come gli uomini sulla luna.
Sono arrivata terza in quella finale, dietro a Martina e proprio alla tedesca.
Quando ho tagliato il traguardo il mio tecnico, Michele Gionfriddo, mi ha detto, con la voce rotta dell’emozione:
“Sei partita di merda e hai corso di merda.
Hai rallentato verso la fine, hai alzato le mani troppo presto per festeggiare e possiamo definirla la gara peggiore da quando ti vedo correre.
Ma sei stata brava!”
Con la mia medaglia di bronzo al collo ho sentito una gioia irrefrenabile e, più di ogni altra cosa, una forza disumana battermi nel petto.
Al rientro di Rio Michele è diventato anche il mio allenatore ed ora tocca a lui sopportare il mio carattere forte.
Ho iniziato perché il tartan di Londra aveva un colore scintillante in tv e perché non volevo darmi il tempo di pensare a quel che avevo perso.
Ho iniziato perché volevo dimostrare che la vita non si esaurisce al primo ostacolo, ma si spegne quando non si ha più la voglia ed il coraggio di fare le cose.
Ma la cosa più sincera è che ho iniziato a correre perché volevo dire alla mia famiglia che c’erano ancora tante cose belle davanti per me.
E avevo ragione.