Mia mamma, dopo due figli maschi, voleva tantissimo una femmina.
Così sono arrivata io.
Non so se si aspettasse che venissi su come una principessina, tutta a modino, ma crescere con due fratelli maggiori ha avuto un' influenza ben precisa sul mio carattere.
Venivo sempre messa in mezzo, nelle più incredibili avventure e attività, come il più piccolo dei tre moschettieri.
E anche il più tosto.
Quando giocavamo a calcio, per esempio, finivo sempre a fare il portiere, il ruolo dei coraggiosi, mentre gli altri sono fuori a fare a gara a chi calcia più forte.
Ero una trottola, non mi fermavo mai.
Non mollavo mai.
Se voleva che mangiassi, mamma, doveva inseguirmi e recuperarmi per l'orecchio o per i capelli perché io scappavo via, sempre impegnata a far qualcosa d'importante.
Mi ricordo come se fosse ieri di quando mio fratello, quello di mezzo, mi faceva arrabbiare e iniziavo a rincorrerlo intorno al tavolo della cucina e lui, che era grosso il doppio di me, invece che affrontarmi, fuggiva via, tutto preoccupato delle conseguenze.
Della mia infanzia ho ricordi semplici, eppure bellissimi, di quelli che non ti serve avere molto perché le cose che contano davvero ce le hai già.
I miei genitori hanno fatto tutto per noi.
Tutto.
Una notte mi alzai per andare in bagno, saranno state le tre, e arrivata alla porta mi accorsi che la luce era accesa. Mi sono avvicinata di soppiatto, e ho visto che dentro c'era la mia mamma che asciugava i miei vestiti con l'asciugacapelli, perché non aveva fatto in tempo a farlo durante il giorno e mi serviva per una trasferta.
Ne conservo tanti di questi piccoli ricordi, che poi non sono piccoli, per me, e che ordinati, uno fianco all'altro, con pazienza, creano l'insieme del mosaico della mia vita.
La vita, che è una linea ininterrotta di momenti piccoli, che diventa visibile solo se la guardi da lontano.
Mamma e papà hanno sempre creduto nei valori dello sport, in quello che ha da offrire ad un bambino per diventare grande e forte, e, per questo, hanno sempre fatto sacrifici per permettere a tutti e tre di fare attività.
Far fare sport a tre bambini è costoso.
Più di una volta mi è successo di incappare per caso in una discussione dei miei genitori su cosa fosse più giusto fare, su come investire i soldi.
Discorsi che forse una bambina non dovrebbe sentire, ma che mi hanno sempre fatta sentire fortunata, perché di quello che hanno fatto per me e per i miei fratelli io mi sento incredibilmente fiera.
Ancora oggi, davanti ad un obiettivo importante, davanti anche ai sogni più accesi, la mia motivazione maggiore è il rispetto per quello che hanno fatto loro, e il desiderio di vederli felici.
E loro sono felici se io sono felice.
È talmente tanto l'amore che ho ricevuto da piccola che non mi basteranno due vite per restituirlo tutto, ma almeno ci posso provare.
Comunque non ho iniziato subito con il judo, anzi.
Prima di tutto la ginnastica ritmica, conservo ancora il body e le scarpette a casa.
Chi ha visto qualche mia lezione riferisce che fossi portata e anche molto divertita, ma evidentemente il destino aveva idee diverse per il mio futuro.
Poi c'è stato il nuoto.
Desideravo tantissimo provare il nuoto ma quando è giunto il momento tanto atteso mi ritrovai con un timpano perforato a causa di chissà quale marachella fatta con i miei fratelli e quindi niente acqua.
Il fratello di mezzo, Salvatore, faceva judo ed era sempre felice.
Tornava a casa con un sorriso largo come le spalle, ogni singolo giorno, e mi sono detta: anche io voglio essere felice quanto lui.
Papale papale.
Così ho iniziato con il judo.
Sono cresciuta in un club piccolo, che è diventato casa.
Era come una seconda famiglia, stavamo sempre insieme, combattevamo tra di noi, ci conoscevamo ognuno come le tasche dell'altro.
Non ho mai guardato al futuro come ad una corsa, con un traguardo ben preciso. Quand'ero piccola mi godevo ogni momento che passavo con i miei compagni, io che ero, praticamente, la sola femminuccia.
In quegli anni facevamo pochissime trasferte e gare in giro perché la nostra società non aveva grandi risorse. Poi, un giorno, il nostro maestro ci portò a Torino, per degli allenamenti speciali con Pino Maddaloni, campione olimpico a Sidney.
Entrammo in palestra e lui ci accolse con un grande discorso motivazionale.
Parlò delle Olimpiadi.
Le Olimpiadi erano questa cosa grande, lontana, che sembrava essere importantissima e interessare a tutti gli atleti del Mondo.
Soltanto quattro persone
ci disse
tra tutti quelli che fanno judo, possono, in quella giornata speciale, vincere e diventare i campioni.
Fu come un'illuminazione.
Fino a quel preciso istante non avevo mai pensato che ci fosse qualcosa da raggiungere, che ci fosse una pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno.
Non avevo mai pensato di essere autorizzata a sognare qualcosa di grande tutto per me.
Non avevo mai pensato che una di quelle quattro persone al Mondo potessi essere io.
È stato come un click.
Un interruttore che si accende e illumina il futuro, cambiando completamente gli occhi con cui guardi qualcosa che è già parte del tuo presente.
Quel che faccio oggi è bellissimo, ma domani, domani, può esserlo ancora di più.
Da quel giorno mi è stato chiaro di avere uno scopo davanti e ho iniziato a lavorare di conseguenza. Mi sono guadagnata il mio posto al sole spaccandomi in palestra e sul tatami, senza mai cadere nella tentazione di accomodarmi sulle certezze.
Chi mi conosce sa che i riflettori non mi piacciono molto.
Il solo motivo per cui mi piace essere al centro dell'attenzione sono i risultati.
Nient'altro.
Il resto non è il mio.
Ho capito che per arrivare in alto sarei dovuta riuscire a controllare la mia emotività e trasformarmi in una calcolatrice, almeno sul tatami.
La competizione è dura in ogni disciplina e, al livello più alto, non appena ti distrai, qualcuno ti ha già rubato il posto a sedere. Ma nel judo in particolare la lotta per eccellere diventa selvaggia, soprattutto in campo femminile.
Lo dico sempre: il judo non è uno sport maschile, il judo è femmina.
Non c'è di che stupirsi, in fondo, quando hanno dovuto combattere le donne, nella storia? Donne con spalle larghe e braccia forti, donne con la femminilità dentro.
Ci sono due tipi di judoka: quella che si comporta come se fosse più forte dell'avversaria ma sotto-sotto non è sicura di esserlo e quella che sa perfettamente ciò che ha dentro, e si concentra sulle cose da fare.
Io appartengo alla seconda categoria.
È un processo, mica è facile.
All'inizio mi capitava di perdere la calma contro le avversarie più scorrette, contro quelle che provocano e giocano sporco. Perdevo la calma e finivo col portare l'aspetto personale sul tatami, smettendo di ragionare e smarrendo la strada.
Oggi, questo, non succede più.
Io mi sento più forte della mia avversaria, ma lo sono perché ho lavorato più di lei, chiunque essa sia. Lo sono perché mi fido della mia tecnica, perché non perdo mai la fede in quello che so di dover fare.
Con questa filosofia e con la mia fede poi, alle Olimpiadi, ci sono arrivata per davvero ed è stata un'emozione talmente forte che mi ricordo tutto nei minimi particolari.
Nel villaggio olimpico dovevo quasi mordermi la lingua per non fermare ogni singolo atleta che incontravo e farmi raccontare la sua storia. Da dove venisse, come avesse iniziato con il suo sport, cosa avesse pensato la prima volta che si era fatto male.
Prima di arrivare a Rio non avevo mai vinto una medaglia mondiale, e neppure europea. Non ero la favorita e c'era gente molto più quotata di me.
Ma non m'importava.
Io sapevo, sapevo che quello sarebbe stato il mio giorno.
Non avevo dubbi.
Avevo immaginato tutto così tante volte che era diventata una realtà nella mia testa, una cosa scontata: sarebbe andato tutto per il meglio.
Ricordo che ci diedero una domenica libera, prima del gran giorno, e io la usai comunque per andare al palazzo. Era tutto deserto e io, con le cuffie sulle orecchie, salii sul tatami, come l'attrice in un teatro completamente vuoto, a poche ore dalla Prima.
Immaginai di vincere.
Immaginai come avrei esultato, girandomi verso il pubblico alla ricerca dei miei genitori.
Della mattina della gara ricordo la mia mamma, che si era presentata sulle tribune portandosi appresso quintali di cibo.
E ricordo mio fratello mettermi in mano il vecchio rosario della nonna, che è stata come una seconda mamma per noi, che ho stretto forte prima di ogni incontro.
Ad un certo punto mi sono accorta che tutto il pubblico tifava per me, non solo gli italiani. Nonostante fossi dentro la mia bolla, ho avuto la presenza di spirito di dirmi che forse era perché mamma aveva corrotto i presenti a suon di panini e non per il mio stile sul tatami.
Dopo aver vinto la semifinale sono esplosa in un grido di gioia che m'ha fatto tremare anche le ossa.
A chi lo abbia dedicato penso che non serva dirlo.
Occhi verso i miei genitori, una mano sulla medaglia e l'altra in tasca a stringere il rosario.
È mancato l'ultimo passetto, la vittoria finale, ma quella magari l'ho tenuta in serbo per Tokyo.