Sono umana.
E posso permettermi di sbagliare.
Ma so anche che il modo migliore per puntare in alto è vivere facendo finta di non avere il diritto di farlo.
È il gesto tecnico che mi rasserena.
Che mi tranquillizza.
Nessun atleta vive bene il proprio fallimento, anche soltanto quello di una singola azione, ed io non faccio alcuna differenza.
Sbagliare una palla, che a volte è una questione di centimetri o poco più, mi fa sentire addosso tutta la pressione del momento, quasi una sensazione fisica, e per questo, ogni volta che entro in campo, il mio obiettivo è sempre lo stesso: fare il minor numero possibile di errori.
Non penso ai punti, non penso al set, non penso al grande schema delle cose: penso a mettere a terra questa palla. Poi la prossima.
Poi quella dopo ancora.
Fino al momento in cui mi ritrovo in battuta e tra le mani accarezzo un potenziale match point.
Vorrei che ogni partita non fosse altro che una collezione di momenti perfetti.
Ogni allenatore del mondo sa che la perfezione non esiste e che a vincere le partite, di solito, sono quelle che riescono a limitare l’incidenza dei propri sbagli: vince chi ne fa di meno. Ma per fortuna, la giocatrice, questo non lo sa.
Ogni palla ha il suo colpo.
Ogni palla ha una soluzione scritta sopra, basta darsi il tempo di leggerla, e io, nel farlo, mi fido dell’istinto, perché la pallavolo che gioco è già tutta dentro la mia testa.
L’estate scorsa è stata un viaggio particolare.
Lungo nel suo trascorrere e unico nei suoi cambiamenti, che non sempre hanno seguito l’ordine dei nostri pensieri.
È stata l’estate in cui siamo diventate campionesse europee, coronando così un lavoro lungo diversi anni, ma è stata anche l’estate della delusione di Tokyo, che è impossibile cancellare con un semplice tratto di penna.
Ci possono volere mesi per comprendere del tutto l’importanza di un percorso, il suo vero valore. E spesso, per riuscirci, è necessario mettere da parte l’orgoglio e iniziare a farsi le domande giuste. Quelle di cui, almeno in partenza, ancora non sai la risposta.
Oggi posso dire che l’esperienza olimpica è stata certamente positiva, risultato a parte, perché mi ha fatto maturare e crescere, sia come persona che come atleta.
Ma non posso certo negare che i nostri sogni della vigilia guardassero di più al risultato del campo, e magari al podio, e meno alle vittorie interiori.
Ci aspettavamo di fare grandi cose, e siamo arrivate in Giappone convinte di averne tutte le capacità.
Sono tanti anni che giochiamo insieme, al netto dei piccoli aggiustamenti che ogni stagione suggerisce, o che gli infortuni obbligano a fare, e ormai abbiamo sviluppato una certa abitudine l’una all’altra. I caratteri forti non sono mai mancati in squadra, e la loro quantità va di pari passo col talento che schieriamo.
Ci vuole sempre qualche settimana, qualche partita, ma prima o poi la ruggine dell’anno appena passato scompare, le gambe iniziano a girare, e noi ritroviamo il gioco di sempre.
Quelle di Tokyo sarebbero state le nostre prime Olimpiadi, intese come gruppo, e non vedevamo l’ora di iniziarle, per dare finalmente sfogo alle nostre stesse aspettative.
Anche se qualcuna era già stata a Rio, come me, che in Brasile non avevo ancora ben capito cosa significasse vivere un torneo a Cinque Cerchi, tutti il percorso di avvicinamento ai Giochi 2020 apparteneva proprio a noi e questo lo rendeva davvero speciale.
Già dall’arrivo nel Villaggio ho sentito tutta la differenza rispetto alle prime Olimpiadi a cui avevo preso parte, e sono riuscita a vivere tutto con una maggiore consapevolezza.
Per la prima volta ho sentito davvero che nulla è scontato, nello sport, e nell’essere lì, in mezzo a tutti gli atleti più importanti del pianeta, mi sembrava quasi di respirare un’aria vincente.
Anche soltanto esserci arrivate, dopo il rinvio e durante una pandemia, senza il pubblico e con le mascherine sempre pronte nel borsone, mi ha fatto sentire parte di un club, parte di una squadra collettiva, composta da tutti coloro che hanno saputo andare oltre le difficoltà pur di continuare a fare ciò che amano di più.
Una sensazione forte, personale, resa ancora più incredibile dall’aver tenuto in mano un pezzo di bandiera, sfilando nello stadio vuoto per la Cerimonia d’apertura. Rappresentare gli atleti nella loro interezza, su un palcoscenico del genere, capita una volta nella vita, e tra la fierezza e tutte le altre sensazioni pure che ho sentito, quel che mi è rimasto dentro è la convinzione che, per scegliermi, le persone devono aver visto qualcosa di giusto in me.
Qualcosa che si muove nella direzione corretta.
Le cose, però, non sono andate come avremmo voluto, come sognavamo nelle settimane prima dell’inizio del torneo. E se delle partite, e del loro andamento, è già stato raccontato tutto, niente potrà farmi mai dimenticare la delusione personale che ho provato nelle ore seguenti all’eliminazione.
Nei due anni precedenti ai Giochi ho vissuto con un occhio sempre puntato in quella direzione, lavorando per diventare una giocatrice e una compagna migliore, con l’idea di raccogliere tutto quello che avevo seminato proprio all’ombra dei Cinque Cerchi.
E invece non è successo.
Ero delusa principalmente da me stessa, dal mio gioco, dispiaciuta di non essere riuscita a esprimere le mie qualità.
Dimostrare quanto vali è diverso da sapere quanto vali.
La convinzione te la costruisci nel tempo, e nessuno potrà mai togliertela.
Ma riuscire a tradurla in successo non è automatico, e a volte sbatte sulle avversarie, sulle sfortune, o sui momenti no.
Non essere state in grado di dimostrarlo nel momento più importante ha fatto molto male.
Nelle settimane successive, mentre la gente commentava e saltava a conclusioni affrettate, noi ci siamo strette l’una nell’altra, confortandoci a vicenda.
Aver condiviso il percorso di avvicinamento e la delusione ci ha unite più che mai, aiutandoci a saldare le nostre insicurezze. Insieme.
Tutte insieme, nessuna esclusa, abbiamo iniziato a guardare all’europeo come un’occasione perfetta per ritrovare il nostro entusiasmo. Non una rivincita e non una vendetta, ma un momento nuovo, per tornare a divertirci ed esprimere in libertà la nostra pallavolo.
È stato complicato, perché eravamo come un pugile suonato che cercava di restare in piedi al centro del ring. Nelle prime partite riaffioravano i dubbi del Giappone, e non sempre riuscivamo a giocare con la giusta tranquillità.
Fino alla sfida con la Croazia, l’avversaria più difficile del girone, che abbiamo spazzato via per 3 a 0, ritrovando all’improvviso tutta la leggerezza di cui siamo capaci.
I pensieri delle sconfitte, la delusione dei Giochi, le chiacchiere della gente; tutto è sparito ed eravamo di nuovo quelle di sempre, spensierate e cattive come solo noi sappiamo essere.
Alla fine, il torneo l’abbiamo vinto, battendo in casa una Serbia che tutti ormai dicevano essere la nostra bestia nera. Come accaduto per le Olimpiadi, anche delle sfide dell’europeo è stato scritto e raccontato tutto, ma la cosa più importante che ho appreso non ha nulla a che vedere con il risultato.
Ho imparato che devo sempre essere fiera del lavoro che sto facendo, perché anche se le difficoltà esistono, e prima o poi arriveranno, non è il punteggio a definire chi sono.
Come mi ha ricordato la mamma, mentre pranzavamo insieme a estate finita: niente di quello che faccio definisce chi sono, ma quello che sono aiuta a comprendere perché faccio quello che faccio.