Paolo Lorenzi

Paolo Lorenzi

12 MIN

In quel periodo occupavo la posizione 230 del ranking ATP.
Me lo ricordo perfettamente.
Ero stato al massimo al 165 ed avevo fatto un po’ di elastico avanti e indietro nella classifica, ma in quei giorni ero fisso lì, in basso.

Se sei oltre la duecentesima posizione nel circuito del tennis non passi certo giorni spumeggianti e anche le prospettive economiche non sono delle più allegre.

Un tennista di quel livello organizza tutto da solo.

I voli, i pernottamenti, gestire gli sponsor, pagare l’allenatore, e via dicendo.

Io comunque lo faccio da solo ancora oggi.

Se non sei tra i migliori finisci sempre con il giocare tornei Challenger e Future, competizioni con premi abbastanza bassi e, in linea di massima, ti va bene se riesci a chiudere l’anno in pari, senza rimetterci di tasca tua.

Tutto quello che guadagni lo investi, non puoi fare diversamente.

Ma lotti per migliorare il tuo ranking, per salire in classifica e aprirti le porte del tennis più importante.

Paolo Lorenzi

Sei sempre a zonzo, in giro per il Mondo, spesso senza i mezzi per portarti dietro il tuo allenatore o il tuo fisioterapista, a combattere su campi di ogni superficie, a qualunque latitudine, pensando in cuor tuo che questo è ciò che devi fare per arrivare nell’Olimpo.

Io ho sempre amato i tornei del Sudamerica per esempio.

La gente lì ha una marcia in più, affrontano tutto con un sorriso contagioso, con una semplicità che mi scalda il cuore.

Vedere gente allegra fa la differenza nella percezione della qualità della vita.

Adoro giocare in Messico, in Colombia, in Ecuador.

Non ho mai visto nessuno lamentarsi di qualcosa laggiù.

La vita è un carnevale in Sudamerica.

Paolo Lorenzi

Io però, quando ero al duecentotrentesimo posto, avevo 27 anni.

Sorrisi e felicità a parte, serviva riflettere su alcune cose: 27 anni saranno pochi per la vita normale ma iniziano a non esserlo più per lo sport.

Non voglio dire che inizi ad essere vecchio, ma di sicuro ti aspettaresti di aver inboccato certe strade, certi percorsi, ben precisi, capaci di darti qualche riscontro tangibile del fatto che stai spingendo nella direzione giusta.

Io comunque sono sempre stato un incosciente.

Un allegro incosciente.

Non mi sono mai accorto del tempo che passava, non ho mai percepito il desiderio di arrivare come un virus, anzi.

Sognavo i grandi risultati, certo.

Ma viaggiare per il globo era già di per sé stupendo per me, ed ero sempre felice di far fagotto e partire.

Il mio viaggio era già magnifico così, quanto in alto sarebbe stata la metà poco importava in quei giorni.

 


Nell’estate di 8 anni fa dunque mi ero ritrovato in una situazione un po’ complicata: ero senza allenatore, senza un posto per allenarmi e con una classifica non troppo scintillante .

Ma ero pur sempre un professionista e anche un grande lavoratore.

Ero sicuro che avrei presto trovato la collocazione perfetta per me.

 

Challenger di Sassuolo, fuori al primo turno, ma decido di avvicinarmi a quello che all’epoca era l’allenatore di Gimeno Traver.

Mi piaceva il suo gioco e farmi seguire dal suo coach mi sembrava una buona opzione.

 

-Mi dispiace Paolo ma non sono interessato, preferisco non seguirti vista la classifica e l’età che hai, ma se vuoi posso darti qualche nome da contattare..-

Doccia gelata, del tutto inaspettata, in fondo stavo offrendo un lavoro e non chiedendo un piacere.

Qualche giorno dopo mi invitarono a Livorno per un’esibizione insieme ad 4 altri tennisti, normale tran-tran lavorativo. Durante la permanenza chiesero a tutti e 4 se qualcuno fosse interessato a fermarsi a Livorno, usare le strutture, allenarsi lì.

Non so dire quanto fossi realmente convinto di questa scelta, ma la proposta era arrivata nel momento del massimo bisogno e mi sono buttato, trasferendomi e cambiando tutto quanto.

Paolo Lorenzi

Primo torneo di questa nuova vita.

Perdo al primo turno contro Jean-Christophe Faurel, francese che è spiaggiato al posto numero 300 del ranking.

Passano tre settimane e Faurel annuncia il ritiro.

 

Secondo torneo.

Perdo al primo turno contro Renqvist, svedese piantato al duecentesimo posto in classifica.

Passano tre settimane e Enqvist annuncia il ritiro.

 

Adesso mi scappa una risata e lo racconto con piacere, ma in quei momenti la fiducia in quello che stavo facendo era un filo venuta meno.

Sembrava che l’universo mi stesse mandando segnali precisi che ho accuratamente deciso di ignorare, per fortuna.

Orecchie da mercante.

 

Salta fuori la possibilità di giocare un torneo in Costa d’Avorio, se ve lo siete persi è abbastanza normale, non l’hanno trasmesso certo sulla Rai o su Sky sport.

Ospitalità a carico dell’organizzazione e bottino finale di 15 mila euro che era più del premio che si vinceva per una semifinale in un Challenge.

Chiamo Petrazzuolo e ci mettiamo d’accordo.

-Se andiamo siamo teste di serie 1 e 2, ci facciamo anche il doppio e siamo a posto.-


Si parte ma una volta arrivati ci rendiamo conto subito che si tratta una situazione difficile e al limite del paradossale.

Il Paese vive una terribile guerra civile e noi ci spostiamo il minimo indispensabile, tenendo sempre stretto in mano il passaporto che in certi contesti protegge di più di un giubbotto antiproiettile.

 

Tutti gli atleti erano stipati in un albergo del centro città che era completamente intasato di militari armati fino ai denti a tutela della nostra sicurezza.

C’era un ascensore solo, vecchio e scassatissimo, ma soprattutto lento da morirci dentro anche solo per fare un paio di piani.

 

Non lo si poteva prenotare.

Un dipendente dell’albergo ci restava dentro 24 ore al giorno fermandosi ciclicamente ad ogni piano, come se fosse un autobus.

Per consumare il primo pranzo della settimana, al pian terreno, ci abbiamo messo più di due ore.

 

Dopo tre giorni, tre, Petrazzuolo decide che è troppo per lui e opta per il rimpatrio.

Sono solo, abbandonato, con una sala pranzo virtualmente irraggiungibile e 4 libri a farmi compagnia.

Mi facevo portare i pasti in camera ed uscivo il meno possibile.

Con il passare dei giorni e l’avanzare del torneo le cose si però facevano sempre meno pesanti, alla fine la mia naturale voglia di condivisione aveva avuto la meglio e nel fine settimana me ne andavo a spasso per la città con il gruppetto dei tennisti inglesi.

 

C’erano anche giovani promettenti che avrebbero poi sono entrati nella top 100: Donskoy, Haider-Mauer, Martin.

 

Ho vinto il quarto proprio contro Andrej Martin.

Qualcuno successivamente, a giorni di distanza, mi ha detto:

 

-Quell’incontro l’hai vinto prima ancora di iniziarlo sai? Ho visto Martin affacciarsi dalla finestra della sua stanza in albergo per prendere un po’ d’aria. Ma quando si è spinto fuori ha visto te nel parcheggio che facevi atletica sotto il sole e con 40 gradi! Non ci voleva credere, lui boccheggiava e tu facevi atletica! E come faccio a vincere? ripeteva-

Ho vinto quel torneo battendo in finale un africano.

Numero 500 del Mondo.

Cinquecento.

Durante la finale c’erano i tifosi che ballavano sugli spalti e dei suonatori di bonghi ai quattro angoli del campo che non hanno mai smesso di battere forte con le mani.

Silence.

Silence please.

Chissà come avrebbe reagito quel pubblico alla voce dello speaker di Wimbledon.

Quel periodo ha segnato l’inizio della mia ascesa e la Costa d’Avorio non resta il solo torneo pazzesco che ho giocato: ce ne sono molti altri.

Esperienze uniche.

La mia ascesa mi ha portato molto in alto, fino a vincere un torneo del circuito ATP anche se è successo solo l’anno scorso, a Kitzbuhel.

L’impresa ha avuto un risalto nazionale perché, a quanto dicono, sono stato il meno giovane della storia a riuscirci per la prima volta.

Lorenzo Bonetti
Paolo Lorenzi

10 anni esatti prima avevo giocato quel torneo per la prima volta e mi ricordo che mi ero emozionato perché nel frigo in camera c’era una Sprite e potevo berla senza doverla pagare.

Quel piccolo, strano dettaglio mi aveva fatto sentire come se fossi più vicino al tennis dei grandi.

 

Vincere un torneo è una gioia principalmente perché per una volta non hai perso.

Non è una battuta!

Il tennista è un grandissimo perdente.

Almeno una volta a settimana durante i tornei perdi.

Non è come il calcio o il basket dove puoi essere un vincente anche se una partita ogni tanto la perdi.

Nel tennis si parte in 32 (o di più) e perdono tutti.

Tutti.

Tranne uno.

E quella volta è toccato a me, una sensazione speciale.

 

Ero arrivato a Kitzbuhel dopo una sconfitta in Coppa Davis con l’Argentina, avevo giocato il doppio e avevamo perso al quinto.

Ero rientrato un po’ con le pive nel sacco e mi ero presentato in Austria senza troppe aspettative, senza il mio allenatore al seguito ma con il mio migliore amico.

 

Ed è stata magia.


Si giocava in altura e un semi-sudamericano come me si trova da dio in quelle condizioni, la palla rimbalza un po’ più in alto e io posso picchiare fortissimo e mettere pressione all’avversario.

Ai quarti ho buttato 4 match-point nel secondo set, che poi ho perso, e ho dovuto lottare fino al terzo.

In semifinale l’ho fatta franca solo al tredicesimo tentativo di chiuderla, dopo 2 ore e 52 minuti contro Melzer.

La finale è stata tecnicamente l’incontro più semplice.

Il direttore del torneo mi ha chiesto la maglietta autografata e l’ha aggiunta alla collezione di cimeli dei vincitori del torneo che è stata raccolta nel corso dei decenni.

Racchette, scarpe e magliette dei campionissimi che hanno vinto.

E la mia.

Questo non è come la posizione nel ranking, ma è qualcosa che nessuno potrà mai portarmi via.

Né ora né mai.

Paolo Lorenzi

Quest’anno ci sono tornato al torneo e ho visto il mio nome scirtto in una delle stelline che ci sono a terra e che hanno il compito di ricordare ai concorrenti i vincitori precedenti.

Me le sono guardate tutte per bene, da Lorenzi ad andare indietro, ma quando sono arrivato a Panatta un po’ la testa mi è girata.

Quasi come quando, poco dopo la vittoria e la conferenza stampa nel 2016, sono tornato in albergo e ho bevuto tutto d’un fiato lo spumante che la direzione mi aveva fatto trovare in camera per congratularsi.

Ero sicuro che in quel preciso istante, da qualche parte in Costa d’Avorio c’era il solito preciso dipendente che continuava senza sosta a manovrare il suo ascensore con maestria, fregandosene delle richieste degli ospiti ma con un sorriso ospitale sulle labbra.

Chissà se anche oggi ha caricato qualche tennista finito in Africa in cerca di fortuna.

 

Ed ero contentissimo.

Paolo Lorenzi / Contributor

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