Quando passeggio nella sera di Livigno, evitando le vie del centro, mi bastano pochi passi nella direzione giusta per ritrovarmi completamente solo, nella pace più totale.
Immerso nella natura di un posto unico, come non ne ho trovati altri al Mondo, cerco di ritrovare il mio equilibrio interiore. Almeno per un attimo.
È la calma apparente, che solo queste montagne mi sanno dare, e mentre stresso al massimo la resistenza del mio corpo, la mente riposa, coccolata dal contesto.
Lo sport, ad alto livello, ti consuma.
Ti mangia.
Schiacciato tra le aspettative tue e quelle degli altri, sulle quali soffia sempre forte il vento delle motivazioni obbligate.
Qualsiasi cosa abbia il potere di tenerti sul filo, di farti andare oltre, è la benvenuta.
Per una settimana, per una gara, per un’ora o per un minuto, poco importa.
Quando trovo in fondo al cranio, oppure allo stomaco, un motivazione in più, mi aggrappo forte ad essa, con due mani, a peso morto, e lascio che sia lei a farmi sopravvivere un passo ancora.
La paura del fallimento è una ragione.
I soldi sono una ragione.
Il piacere di sentire il dolore fisico è una ragione.
Ripensare a tutti i giorni spesi lontano dalla famiglia è una ragione.
Tutto lo è, tutto è benaccetto se mi permette di continuare, di vincere.
Di lottare.
Non sempre tutto questo mi fa sentire in pace con me stesso, anzi.
Direi che per quasi la metà delle mie giornate provo esattamente all’opposto.
A volte arrivo persino ad odiare me stesso e quello che faccio.
Perché se vuoi durare a lungo nello sport devi saper estrarre luce anche dalle motivazioni oscure, senza che prendano il sopravvento ma anche senza bloccarle mai.
Senza mentirti mai.
Tutti inseguiamo la felicità, nel triathlon come nella vita, ma questo non autorizza nessuno a raccontarsi bugie. Nel momento esatto in cui ne dici una, quella se ne porta un’altra appresso. E un’altra ancora. Giustificazione dopo giustificazione, ad un certo punto, le parole diventano auto-commiserazione, e prima di essertene accorto stai vivendo una storia falsa.
Lo sport è duro, lo sport è crudele.
E il triathlon lo è di più: ti mangia se non lo mangi prima tu.
Per questo motivo, passare dei giorni qui ogni anno, per me, è tanto importante. È il momento che prendo per me, per il mio equilibrio, per provare a riallineare tutti i miei pensieri, cullato dall’ospitalità della gente e con gli occhi pieni della bellezza delle montagne.
Al nostro livello, niente accade per caso.
E non è accaduto per caso neppure che scoprissi Livigno: è stato il risultato di una ricerca fatta con la massima attenzione.
Prima di dedicarmi completamente al triathlon, prima del professionismo, ho studiato fisica, e credo che quella mentalità matematica e puntigliosa sia rimasta in me, come parte integrante del mio successo sportivo.
Non vince solo il più forte, vince anche chi usa la miglior tecnologia, chi studia più a fondo i dettagli, chi continua a cercare un modo per stare davanti alla concorrenza.
Chi non si accontenta mai.
Sono stato uno dei primi a farlo. Ho sempre pensato a cosa mi avrebbe potuto rendere un atleta migliore, anche, se non soprattutto, nel momento in cui non mi serviva. Perché è proprio quando sei in cima che gli altri cominciano a fare di tutto per cercare di tirarti giù.
In molti hanno il motore giusto, ma non tutti lavorano abbastanza. Emerge chi lo vuole di più, e chi, per riuscirci, controlla fino in fondo il proprio pensiero, la propria volontà.
Bisogna essere brutalmente onesti, sempre, riconoscendo l’attimo in cui cominci a sbattere con insistenza contro i tuoi limiti di ieri. O dell’altro ieri.
Bisogna avere la forza di mettersi sempre in discussione, alla ricerca della soluzione ad un problema che gli altri non hanno neppure capito di avere.
È stato per salire uno di questi gradini che qualche anno fa ho scelto di inserire anche l’allenamento in altura nella mia routine. Per scavare ancora un po’, giù, a fondo nel mio zaino, nella scatola dei trucchi, superando il confine di allora.
Abbiamo guardato, ed esaminato, e valutato tutti quei posti, in Europa e nel Mondo, che offrono strutture adeguate a farlo. Che abbiano l’altitudine giusta. La piscina. Il campo d’atletica. I sentieri. Sono pochi. E tra quei pochi nessuno è come questo.
Sono sempre stato così, lungo tutto il corso della mia carriera.
Un perfezionista insoddisfatto, a volte intrattabile quando si avvicinano le gare, che vive in perenne equilibrio tra l’entusiasmo di fare quello che gli piace e il dubbio di non averlo fatto al massimo livello possibile.
Sono così fin da che ero bambino, e a questo punto credo che lo sarò per sempre.
Non ho cercato io lo sport, è stato direttamente lui a trovare me.
Probabilmente oggi mi prescriverebbero una qualche cura, ma allora invece no, e correre, nuotare e pedalare è stata la mia valvola di sfogo: lo sport era una risposta.
Ricordo che alle elementari, un giorno, pubblicarono il giornalino della scuola, in cui ogni studente poteva scrivere che cosa sarebbe diventato da grande. E tra astronauti, agenti segreti e domatori di leoni, io, a 9 anni, scrissi: triatleta professionista.
Non so neppure quanti ce ne fossero in quegli anni, di triatleti professionisti.
Forse, a guardar bene, la mia era la più fantasiosa di tutte le risposte, ma io avevo le idee chiare. Chiarissime. Perché nulla mi dava la stessa soddisfazione.
Il cibo ha un sapore migliore, il divano è più morbido, tu sei più vivo che mai quando senti quella sensazione di completo esaurimento fisico, che solo un allenamento fatto bene ti sa dare.
Ho scelto immediatamente una disciplina individuale, tutta mia.
Non volevo essere un pezzo di una squadra, volevo essere la squadra intera.
Volevo essere libero, qualora in una gara non mi fossi sentito abbastanza, di potermi allenare di più. Di provare più forte. Di spingere di più.
E nel triathlon questo l’ho sempre potuto e saputo fare.
Ho costruito il mio modo di vivere la competizione, il mio modo di affrontarla e di progettare un futuro sempre nuovo, in cui sono più bravo di ieri.
Costi quel che costi.
Non è successo gratis, tutt’altro.
È venuto imparando a non scendere a patti con nulla che non fosse l’eccellenza, è venuto con la ricerca della perfezione, che grazie al cielo non si raggiunge mai per davvero e che quindi resta sempre lì davanti.
Ho creato un sistema, che funziona per me, e che mi circonda delle strutture migliori, dei collaboratori migliori, della tecnologia migliore, perché il triathlon è un po’ come la Formula Uno e solo studiando ogni pezzetto di telemetria puoi mettere insieme il mosaico di una gara giusta.
Ogni competizione è diversa, ogni giorno una lotta, ma anche quando so che è impossibile vincere, riesco comunque a pretendere da me stesso qualcosa di irrealizzabile, così da tenere il mio corpo sotto stress, e il mio cervello in allerta.
È come un flusso di incoscienza, che più sei dentro la gara, più sei dentro la performance che volevi fare, e meno ti ricordi di come è andata.
Nelle gare buone, di quello che ho pensato nelle ore di fatica, non ricordo quasi nulla, e passato il traguardo è come se suonasse una sveglia che mi riporta a terra.
Nelle gare brutte, invece, ricordo tutti i miei pensieri, che inquinano la mente, e che insinuano dubbi di ogni tipo su cosa non ha funzionato nel percorso di avvicinamento.
Ma le prestazioni migliori in assoluto non sono quelle in cui mi sento forte, impermeabile a tutto, sono quelle in cui le paure arrivano e io ho la presenza di spirito per scacciarle, per abbracciare il dolore. Quando sento di aver controllato la mia mente di fronte al burrone, in quel momento mi sento pronto a saltare di là.
E atterrare tutto intero.
Ecco allora che alla mia età sono ancora qui, a incrociare gambe e anime con atleti che hanno quasi la metà dei miei anni.
Sono qui a informarmi sulle ultime novità tecnologiche, a studiare gli avversari, e a grattare grammi di forza da qualsiasi motivazione possibile.
Sia essa di quelle che mi fanno dormire sereno la notte, oppure no.
Sono qui a fare i ritiri in altura, lontano dalla famiglia, perché so che rappresentano il meglio al Mondo, e non potrei mai, e poi mai, lasciare qualcosa di intentato nel raggiungere i miei obiettivi.
No, lo sport non mi ha ancora mangiato, perché sono sempre un passo avanti a lui.
Costi quel che costi.