Taglio i capelli, ovviamente nel solito posto.
Come da tradizione.
Prendo la sacca e vado a vincere i campionati italiani indoor.
Doppietta, di nuovo, proprio come l'anno scorso.
Titoli junior e titolo dei grandi.
Leggo molto, tanto anche di sport, soprattutto quando gli esami mi danno un po' di tregua.
Si parla spesso dell'atleta come di un viandante sempre in viaggio, perennemente.
Un nomade che cerca di ricreare i propri equilibri fisici e mentali a prescindere da dove si trovi nel Mondo.
In molti pezzi che ho letto, a firma di grandi atleti, ho sentito spesso che:
l'atleta è come un pianeta con un abitante solo.
Non posso che confermarlo, soprattutto per le discipline individuali.
Ma la mia situazione è sicuramente diversa ed è quasi unica.
Io vivo ad Ancona e ogni anno l'inizio, i primi appuntamenti importanti della stagione, si gioca in casa mia.
Letteralmente in casa mia.
Lo stesso palazzetto dove mi alleno sempre.
Ne conosco ogni centimetro, ogni angolo nascosto.
Chiamo per nome il custode, tutte quante le persone che ci lavorano.
L'ho visto illuminato dalla luce dell'alba e da quella del tramonto.
L'ho visto sporco e anche pulito.
Tirato a lucido o scricchiolante.
Conosco la visuale precisa che offre da ogni suo punto: tribune, pista, ingressi.
Saprei riconoscere dal rumore che fanno le gocce sulla struttura se la pioggia sta cadendo dritta o piegata dal vento.
Saprei dire con assoluta certezza quando sta per finire l'acqua calda, e comunque avrei già scelto la doccia migliore.
È casa mia quel posto e se anche provaste a nascondermi le scarpe chiodate in qualche angolo le troverei in meno di 10 minuti.
È una sensazione unica andarci ripetendosi ad alta voce che: oggi non è un allenamento, ma un campionato italiano.
Serve un enorme sforzo mentale per scrollarmi di dosso la sensazione che sia un giorno qualunque.
Bisogna mettere in moto la macchina emotivo-competitiva, che è quell'insieme di ingranaggi che ti parte in automatico, con l'autopilota, quando sei fuori sede.
Lo fanno scattare i viaggi, gli alberghi, i pranzi organizzati, i trasferimenti in pulmino.
Lo fa scattare lo studio della pista sconosciuta o semi-sconosciuta.
Ma quando dormi nel tuo letto, mangi a casa, la mattina magari vai pure in università, allora è più difficile travestirsi da Paperinik nel pomeriggio e cercare di portare a casa qualcosa di pesante.
Perchè in fondo se tutto quello che ti circonda è ordinario, come puoi pensare di ottenere qualcosa che non lo sia?
A volte quando sono nella call room, in attesa della mia gara, intento ad allacciarmi le scarpe, a controllare gli ultimi dettagli, mi sento come se fossi davvero il padrone di casa.
Come se tutti gli altri atleti fossero ospiti sul mio divano di casa e fosse una mia responsabilità non fargli mancare noccioline e bibite.
Nemo propheta in patria.
Nessuno è profeta nella propria patria.
Se una cosa entra di diritto nell'immaginario collettivo deve per forza esserci qualcosa di vero.
O almeno credo.
Superare i propri limiti o anche solo accarezzarli è più semplice in terra straniera.
Ed è anche più difficile che chi ti ha visto correre tutti i giorni si accorga che tu nel tempo hai magari spostato lontanissimo, quei limiti.
Questo per me a volte è complicato da gestire, a volte la tensione mi mangia il fegato e fatico persino a mangiare: iniziare la stagione sempre e comunque tra le mura domestiche rende tutto unico e surreale.
Mi attacco ad alcuni gesti, a certe abitudini.
Piccoli angoli miei nella città, dove andare a rilassarmi o scaricarmi.
La visita pre gara di qualche amico, uno di quelli di sempre, che non potrebbero esserci da un'altra parte.
Piccoli dettagli.
Sfumature di quella vita di tutti i giorni che mi aiutano a ricordarmi della gara, piuttosto che a farmene dimenticare.
Una cosa sarà impossibile da cambiare.
Qualunque cosa accada e qualunque siano i miei risultati.
(vabbè dai questa l'ho detta solo per malcelata scaramanzia)
Il tifo da stadio dentro al palazzo.
La curva è assiepata con i miei tifosi, quelli miei soltanto.
I miei personalissimi ultras, mi sento una rockstar.
Quando lo speaker mi presenta c'è sempre un boato clamoroso ed io non posso che sorridere, a metà tra il fiero e l'imbarazzato da tanto affetto.
Quando il mio faccione sorridente compare sul megaschermo ed alzo la mano in segno di saluto il chiasso copre qualunque altro rumore ed io so che devo andare bene.
Anzi benissimo.
Nel mondo dell'atletica è raro vedere una cosa del genere, anche quando lo stadio si riempie il tifo resta cordiale, da salotto, quasi neutrale.
Ecco ad Ancona no.
E allora chissenefrega della saggezza popolare, e dei successi tra le mura amiche.
Per me vederli lì è un carburante pazzesco.
Aumenta la pressione a dismisura ma mi mette anche le ali ai piedi.
Tira fuori i risultati dalla mia ansia.
Tira fuori il mio meglio dal mio peggio.
Come se mi buttassi sporco in una lavatrice e tutto quel vorticare rumoroso mi sputasse fuori pulito, stanco e trionfante.
Ricordo che il primo titolo italiano assoluto sugli 800 l'ho vinto con una progressione pazzesca negli ultimi 200 metri e non potrò mai scordare quello che mi sono detto all'ultima camapanella: senti che boato, non posso perdere in casa.
Ed ho fatto un finale più da velocista che da mezzofondista.
Dove ho preso le energie, non lo so, mi piace credere di averlo fatto dalle gambe dei miei amici di sempre, quelli assiepati sugli spalti, proprio davanti al traguardo.
Sono giovane lo so, con ancora tantissimo tartan sotto ai piedi, da bruciare il più velocemente possibile.
Ma poter competere per i traguardi più alti a casa propria è raro a qualunque età ed è un'emozione che io mi voglio tener stretta.
Ora scusatemi ma c'è da chiudere la palestra e le chiavi oggi ce le ho io.