Penso che le Olimpiadi debbano essere un esempio di resilienza.
Sempre, a prescindere da tutto.
Lo devono essere nella normalità, che è un momento che si ripete all’infinito in cui ogni atleta si spinge oltre i propri limiti per ottenere il meglio da sé.
E lo devono essere anche in questo periodo di emergenza, che è un momento unico nella storia, in cui il passato è un ricordo e l’atleta, volente o nolente, diventa un simbolo di tenacia contro ogni avversità.
La presenza del pubblico farebbe la differenza, come ha sempre fatto nelle scorse edizioni, perché sentire il tifo e il calore di chi ti sostiene, ha il potere di spostare gli equilibri. Non sarà questo il caso, e nessuno potrà mai restituire a chi parteciperà quell’emozione mancata, un destino che abbiamo in comune con tutti quelli che hanno perso qualcosa in questi anni ultimi due anni.
Allo stesso tempo, però, sono entusiasta di poter partecipare ai Giochi, e una volta dissipati gli ultimi dubbi sull’effettiva realizzazione dell’evento, ogni mia energia si è focalizzata sul solo obiettivo di entrare in campo, di giocare al meglio delle mie possibilità e di concretizzare finalmente il mio sogno di bambina.
Adrenalina, gioia, tensione, curiosità: sono tante sono le emozioni che provo ogni giorno. Si fanno sempre più forti, mescolandosi in un calderone tutto mio, che probabilmente sarò in grado di comprendere al 100% solamente quando salirò sull’aereo per la Cina.
Il percorso che mi attende all’ombra dei Cinque Cerchi sarà anche l’occasione, spero la prima fra tante, per mettere insieme i pezzetti del mio passato, facendo confluire nell’importanza dell’evento anche tutti i ricordi che lo hanno reso possibile.
La vita è come una partita a memory, da giocare contro la storia, quella con la s minuscola. Quella personale, che è tua e di nessun altro. Soltanto giocando a carte scoperte, dopo aver girato tutti i tasselli, sarà possibile ricostruire i passaggi che ti hanno condotto al traguardo finale. Ma finché il quotidiano è stracolmo di impegni, di sogni e di obiettivi da raggiungere, tutto quel che riesci a vedere è soltanto un paio di carte per volta.
Sperando che siano uguali, e che la partita giri in tuo favore.
Nelle carte del mio memory ci sono tante persone speciali, che mi hanno permesso di costruire il mosaico della mia vita e della mia carriera, arricchendo l’immagine della loro presenza.
C’è l’amica giusta, che quando avevo sette, otto anni, per prima mi ha fatto innamorare del curling, prendendomi per mano e accompagnandomi verso il pomeriggio che avrebbe cambiato per sempre le mie prospettive.
Ci eravamo da poco trasferiti in un altro sestriere di Cortina, e anche se adesso, le distanze fanno un po’ sorridere, a quell’età, in cui tutto è più grande che mai, cambiare quartiere può stravolgere il corso degli eventi.
Lei giocava già da un po’ e mi ha convinta a provare.
Di quel pomeriggio ricordo tutto.
Ricordo proprio me, in prima persona, le mie sensazioni e i miei pensieri.
Cascavo continuamente e per questo cercavo di restare in piedi tenendomi al muro, oppure aggrappandomi alle mie compagne, molte delle quali, come me, erano sul ghiaccio per la prima volta.
Il gioco mi ha presa subito, perché è cerebrale ma anche adrenalinico, a patto di riuscire a capire il come.
Le squadre sono lasciate al confronto diretto, con l’arbitro che quasi non esiste, silenzioso spettatore di una sfida giocata sempre all’insegna del fair play.
È uno sport da tenere stretto, da raccontare più spesso e da far provare a tutti, perché nelle lunghe ore passate al freddo durante una partita, si tempra il carattere, si sfidano la geometria e la matematica, e soprattutto, si deve per forza imparare ad interagire con i propri sentimenti e picchi emotivi.
L’adrenalina esiste, esiste eccome.
Ma a differenza di quel che accade in molti altri sport va ammutolita, per tenere sempre sott’occhio i livelli della propria efficacia tecnica, e costruendo così una prestazione in cui la giusta tensione non viene mai oscurata dal peso del momento.
In una partita si possono giocare dalle 8 alle 10 mani, e dopo decine di tiri, tutto si decide nell’arco di pochissimi secondi.
Io gioco da skip, la persona che tira per ultima, quella che ha le colpe o i meriti per il tiro della vittoria.
E mi è sempre piaciuto.
Mi dà una carica in più.
Bisogna coltivare la pazienza e nell’istante in cui si sbaglia, imparare a sopportare la rabbia, controllando i sentimenti più immediati.
Tutto parte dalla sensibilità nella scivolata, che è praticamente il 90% del tiro.
Come giocatore, la spinta che ci si dà sulla staffa è quella decisiva per la riuscita finale e per renderla efficace bisogna accettare il proprio stato d’animo.
Non soltanto silenziare la frustrazione, ma anche contenere la gioia, perché se si è troppo carichi, troppo energetici, si rischia comunque di sbagliare, oltrepassando il centro del bersaglio.
E quando capita di avere addosso il peso di una sconfitta, e per questo di sentirmi dispiaciuta oppure arrabbiata, altri, importanti, tasselli del memory mi aiutano a recuperare l’equilibrio perduto.
È il caso della mia famiglia.
Pur essendo una ragazza che ha sempre cercato la propria indipendenza, la loro presenza mi ha permesso di fare tutte le esperienze nel modo giusto.
Papà, per esempio, è stato un calciatore e poi un giocatore di hockey, e questo gli ha sempre permesso di capire con una sola occhiata il mio stato d’animo.
A livello di sentimenti, di sensazioni dell’atleta, lui mi ha sempre capita.
Tornavo a casa, mi guardava in faccia e sapeva di non dovermi chiedere assolutamente niente. Allora decideva di lasciarmi stare, farmi prendere il mio panino o la mia cena, mangiare veloce e andare in camera, perché la mia routine per sbollire è restare un po’ da sola.
E in quelle volte in cui, oltre alla rabbia, c’è anche un filo di tristezza non ha mai mancato di farmi la domanda giusta, quel “come stai?” che ti cambia la giornata.
O quella pacca sulla spalla che vorresti tanto, ma non chiederesti mai.
Forse il curling non è ancora uno sport molto conosciuto in Italia, e per questo da bambina non ho avuto l’occasione di andare a vedere una partita e dire: “wow, voglio giocare, voglio arrivare in alto e voglio ottenere risultati in questo sport”.
Però le cose hanno funzionato lo stesso, perché la magia della stone, quando ti entra sottopelle non si esaurisce più.
Con il tempo, perfezionista come sono, che quando faccio qualcosa voglio farla bene a sufficienza per esserne orgogliosa, ho iniziato a sognare di diventare un’atleta importante. Mi ricordo ancora che un pomeriggio, durante un allenamento, il mio allenatore mi ha chiesto: “ma qual è il tuo obiettivo?.
E io, senza neppure pensarci, ho risposto: “le Olimpiadi”.
Lì mi sono resa conto per la prima volta di quanto ci tenessi davvero.
Così mi sono costruita come persona e come atleta, pezzo dopo pezzo, tessera dopo tessera, con il curling che mi ha fatto da compagno, alimentando la mia passione lungo la via.
Quasi quindici anni dopo quel primo allenamento a cui mi sono presentata per caso, la stone è ancora lo strumento che da una direzione alla mia vita, e che sta per farmi vivere l’emozione più grande in assoluto.
Saremo ai cancelli di Pechino 2022, portando il nostro personale esempio di resilienza, in questi tempi strani e complicati.
Sarà il primo grande traguardo di un percorso iniziato tra le vie di casa, e sarà anche l’occasione di provare a fare qualcosa di speciale.
Partecipare alle Olimpiadi è un motivo di festa, ma il mio sogno non si esaurisce con loro: si rinnova e continua, cosciente che serva sempre fare bene le piccole cose, tutte le piccole cose.
Perché il risultato finale è una diretta conseguenza del posizionamento di ogni singolo tassello.
Come il memory.