Thea LaFond

10 MIN

No. Non lo farai”.

Mia zia rispose così.

Avevo soltanto cinque anni, e quando mi sforzo di guardare indietro, quello è il mio primo ricordo.

Sono nel sedile posteriore dell’auto, in Dominica, e stiamo andando tutti in aeroporto, per prendere un aereo verso i grandi Stati Uniti d’America, verso il New Jersey, un posto che, dal giorno dopo, avrei dovuto iniziare a chiamare casa.

Tengo tra le braccia la mia bambola preferita, e quando chiedo alla zia quando andrò a trovarla la prossima volta, lei mi rispose “non lo farai”.

Perché l’America è lontana, dall’altra parte della luna, e arrivarci costa soldi.

Tempo.

Lavoro.

Mentre l’aereo galleggiava ricordo anche di aver chiesto che cosa fosse quell’enorme macchia marrone sotto di noi, perché no, non poteva certo essere il mare.

Il mare è blu.

L’Oceano è del colore del cielo.

Ma questo, forse, è vero soltanto nei Caraibi.

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All’inizio della nuova avventura, condividevamo la casa con un’altra zia e con mio cugino.

Vivevamo in 8 sotto lo stesso tetto, e io dormivo nella stanza con mamma e papà.

La vita era semplice.

Essenziale.

Ci ho messo anni a rendermi conto di quello che ci mancava.

Soltanto da adulta ho compreso la fatica dei miei genitori, l’importanza e le difficoltà della loro scelta. Da piccola non me ne sono mai accorta.

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Ovviamente, non tutto è stato facile. Anzi.

Io ero diversa dagli altri.

Il mio accento era diverso.

Ma la mamma aveva una regola ferrea: che non si poteva tornare direttamente a casa alla fine della scuola, bisognava sempre avere qualcosa da fare, e occupare le giornate.

Allora io facevo di tutto. E questo mi ha permesso di non sentirmi mai sola.

Dal coro alle art class, dallo sport alla danza.

E poi ero un’avida lettrice. Avevo sempre un libro in mano e non smettevo mai di prenderne di nuovi, in biblioteca.

Proprio ai libri è legato un momento importantissimo della mia vita, uno di quei passaggi che definiscono chi sei e come reagisci alle cose del mondo, della cui potenza, però, ho capito soltanto più tardi, quando ero nel cuore dei vent’anni e ho rivissuto il momento, parlandone con mia madre.

Pizza Hut, nota catena di fast food, aveva un programma, che esiste ancora oggi, chiamato “Book it”, che consisteva nel regalare una pizza a qualunque bambino dimostrasse di aver letto un libro intero, spuntandolo da una lista.

E io, ogni volta che finivo uno, facevo firmare la ricevuta alla maestra e poi correvo a riscuotere il premio.

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© Allton Belleau

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© Allton Belleau

Ci sono voluti anni, e le parole di mia mamma, per rendermi conto di quanto valore avesse per me e per la mia famiglia, che fossi proprio io, a quell’età, ad occuparmi della cena, una volta ogni tanto.

Anni, per comprendere l’impatto che aveva sulle finanze di casa e sulla formazione della mia indipendenza, del mio carattere, del mio modo di intendere le cose.

Certo, leggere mi piaceva, la pizza mi piaceva, sentirmi utile mi piaceva, ma io amavo la danza sopra ogni cosa.

Fino ai 13 anni ho avuto una formazione classica: balletto, tap, jazz.

E per tanto tempo ho pensato che quella sarebbe stata la mia strada.

Poi, in casa, è arrivato un fratellino, e visto che il balletto era un’attività costosa, mi è stato chiesto di scegliere qualcosa che venisse organizzato direttamente dalla scuola, e lo sport è stata la risposta migliore.

Ho iniziato con il volley, ma quella era una disciplina autunnale, e mi serviva anche qualcosa che riempisse le mie primavere, e allora, per seguire i miei amici e passare più tempo possibile con loro, puramente per peer pressure, mi sono ritrovata su un campo da atletica.

Così tutto è cominciato.

Una crescita costante, la scoperta del talento.

Tutti gli step che servono per diventare un’atleta vera.

Forte.

Ambiziosa.

Un Olympian.

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Ai Giochi di Rio avevo 22 anni e una gran voglia di esserci.

Di godermi il momento.

Di respirarne tutta la bellezza.

Ma la gara è stata un disastro: ultimissima.

Fuori dalla finale con la peggior misura in assoluto, e mi ricordo del momento in cui, seduta sugli spalti a guardare le altre che si giocavano il podio, davanti al pubblico festante, chiesi a me stessa: “posso farlo anche io, ma come? Come?”

Al rientro a casa, con addosso la sensazione di aver deluso un intero Paese, mi resi conto di avere davvero bisogno di aiuto, di avere la necessità di salire di livello, di curare ogni minimo aspetto della vita professionistica.

Che se volevo vincere qualcosa non potevo lasciare nulla al caso.

Andai a caccia di un nuovo allenatore.

Ne contattai uno, Muhammad Halim, triplista come me, delle US Virgin Island.

Messaggi, mail, chiamate.

Nessuna risposta.

Sono arrivata al punto di commentare ogni singolo post social, chiedendo esplicitamente di scrivermi, di farmi parlare, di ascoltarmi.

Quando finalmente la mia insistenza è stata premiata, Muhammad mi ha organizzato un incontro con Aaron Gadson, un altro triplista, americano.

È bastato un giorno con Aaron per capire che fosse la persona giusta per me.

E che io lo fossi per lui.

“Quando possiamo iniziare?”

Domani!”

La decisione più veloce della mia vita.

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E dal quel giorno è iniziato un percorso nuovo, che ha fatto di Aaron anche mio marito, e di me una campionessa Olimpica, non senza difficoltà.

Il momento più difficile è stato proprio a metà, tra Rio e Parigi, alle Olimpiadi di Tokyo, dove ho capito a mie spese che, nonostante mi sentissi forte, non ero ancora pronta ad arrivare in cima.

Ho fatto una qualifica straordinaria, one and done.

E poi, durante la finale, sono stata travolta dalle emozioni, dalle farfalle nello stomaco: troppo coinvolta per essere davvero me stessa.

Troppo dentro il momento per viverlo davvero.

Ero la portabandiera, ero nel pieno della mia parabola ascendente, piena di aspettative, di sogni, persino di pretese, e mi sono piegata alla grandezza dell’istante.

Non mi sono mai sentita così male.

Non riuscivo più a fidarmi delle mie stesse sensazioni.

Odiavo la tristezza che sentivo, ma non riuscivo a silenziarla in alcun modo.

Ad un mese dalla fine dei Giochi, con addosso la convinzione di aver deluso tante persone che amavo, sono scoppiata a piangere.

Finalmente.

Un pianto liberatorio.

Che mi ha convinto a parlare con una psicologa sportiva, per fare l’ultimo salto in avanti.

Ho imparato a smettere di sentirmi colpevole.

E ho imparato di avere bisogno di uno spazio in cui poter essere egoista, quando necessario.

Fronteggiare i momenti difficili mi ha cambiato le prospettive, dandomi delle risorse fondamentali per vivere quello che sarebbe arrivato.

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Perché l’ultimo scalino è il più difficile.

Non c’è dubbio a riguardo.

In tanti possono essere forti.

In pochi possono essere grandi.

Sull’ultimo scalino basta un’ombra di paura per cadere.

“Il mio obiettivo è portarti in uno stato mentale in cui non avrai più bisogno di me”, mi ripeteva sempre, e se all’inizio parlavamo tutti i giorni, nel 2024 ci siamo sentite soltanto una volta.

Una scalata che ha conosciuto anche molta frustrazione, con tanti quarti posti per questioni di centimetri, e nonostante un personal best che migliorava di continuo.

Come se stessi facendo tutte le cose giuste, ma il destino volesse controllare fino in fondo se ero pronta davvero. Come avrei gestito le delusioni.

Almeno fino a quest’anno.

L’anno dei miei 30.

L’anno del perfetto equilibrio.

L’anno di un grande ciclo che si chiude.

Con i 15 metri saltati, il titolo Mondiale e soprattutto il trionfo di Parigi.

E io, adesso, mi sento completamente in pace con la strada fatta fin qui.

Con i trasferimenti.

Con i libri che diventano pizze.

Con il balletto.

Con l’atletica.

Con Rio.

Con Tokyo.

Con gli errori.

Perché tutto mi ha portato fino al momento presente, quello in cui ogni cosa è esattamente dove dovrebbe essere e come dovrebbe essere.

E in cui il futuro non è nulla di più e nulla di meno di quel che sarà.

Thea LaFond / Contributor

Thea LaFond