Questa volta sono stato fortunato.
Dal terrazzo del mio appartamento si scorge direttamente il campo principale di Wimbledon.
Questo spettacolo avevo una voglia matta di viverlo fino in fondo, di assaporarne ogni minuto ed una location migliore non avrei proprio potuto chiederla.
A guardarlo è incredibilmente suggestivo, quasi magico direi.
Si percepisce tutta l’energia che verrà sprigionata dagli atleti a partire da domani, quando inizierà il torneo.
Che stavolta sarà anche il mio torneo.
A dire il vero avevo già partecipato a Wimbledon quando avevo 17 anni.
Feci il torneo juniores, sui campi del torneo ufficiale.
La mia prima esperienza sui campi in erba, però, non era stata delle migliori: non era una superficie adatta al mio gioco, la palla rimaneva sempre bassa e si scivolava parecchio.
Tornando l’anno successivo, dopo aver messo su qualche muscolo in più ed con un po’ di esperienza sulla superficie ho cominciato a sentire pian piano il feeling con questo tipo di erba.
E’ qualcosa di strano per noi tennisti: è un qualcosa che lasci in un angolo per tutto l’anno, quasi in disparte, come un oggetto chiuso in un cassetto.
Poi, ad un certo punto quasi all’improvviso, arriva la stagione dell’erba: la più corta di tutte, appena quattro settimane.
E si ricomincia ad assaporare e vivere quel terreno particolare, che ha una risposta tutta sua ai colpi e ai movimenti.
Per quattro anni ho atteso di tornarci, finchè a 22 anni ho disputato le prime qualificazioni a Wimbledon da professionista.
In questa occasione però non si giocava sui campi ufficiali.
Ho dovuto aspettare parecchio, come un amante non corrisposto.
L’anno scorso ho mancato la qualificazione per un soffio, essendo il primo Lucky Loser ma non venendo ripescato, una rarità regolamentare che non accadeva da 37 anni. Questo ha reso il mio approdo quest’anno ancora più gustoso.
Ho sudato ogni giorno per un anno inseguendo di nuovo il sogno di poter giocare in questo circolo così speciale.
E finalmente, quest’anno l’occasione è arrivata.
Ho cominciato quindi a preparare il torneo molto presto, a differenza degli altri anni.
Per prendere confidenza ho giocato due tornei nelle tre settimane precedenti a Wimbledon entrambi, ovviamente, sull’erba.
Sono arrivato a Londra già il giovedì, in modo da potermi allenare al meglio nei giorni successivi: due allenamenti al giorno (sparring partners d’eccezione Gasquet e Tsonga), palestra, fisioterapia, la giusta alimentazione e soprattutto l’accurata gestione delle energie.
Sapevo che giocando i match al meglio dei cinque set centellinare le forze sarebbe stato un punto fondamentale.
Non ho girato molto nel fine settimana: Londra, infatti, la conoscevo abbastanza bene, ci ero già stato altre volte e questa visita aveva un solo grande obiettivo.
Volevo arrivare pronto.
Ed ora sono qua, in una domenica di Luglio, a pensare a quello che mi aspetta il giorno successivo.
Gioco subito, la prima partita è alle 11.30 del primo giorno, contro un avversario sicuramente più ostico di quanto potessi sperare: il numero 28 del mondo Sam Querrey.
La tensione del pre-gara è quella giusta: non eccessiva, ma non sono neppure troppo rilassato.
So che abbiamo fatto tutto al meglio per farci trovare al 100% oggi, non lasciando nulla al caso.
Sono in fiducia e sto esprimendo un buon gioco, quindi sento di poter far sentire la mia voce anche se la differenza in termini di ranking atp è tanta.
Camminando tra i vialetti di Wimbledon comincio a capire perché a detta di tutti questo ambiente sia considerato “il tempio del tennis”.
C’è gente ovunque, persone di qualsiasi background culturale e nazionalità, ma hanno tutti un qualcosa in comune: sembrano in qualche modo pervasi del sobrio, classico stile londinese, quasi come se si fossero adattati naturalmente agli usi di questa terra.
La cosa che mi lascia sconvolto è la quantità di persone, soprattutto considerando che è il primo giorno di torneo, e siamo al lunedì mattina.
Tutti i campi sono pieni; anche il mio lo è pure essendo molto lontano dai principali.
E’ stracolmo di gente ancora prima dell’inizio del riscaldamento.
Nonostante ne conoscessi le caratteristiche vederlo da spettatore e giocarlo è tutta un’altra cosa.
Essere su quel campo regala sensazioni uniche, un’energia speciale.
L’aria che si respira è quella della storia e dei grandi campioni del passato, ma non è un’aria polverosa e antica ma lucidata a nuovo come l’argenteria buona.
Mi giro verso il pubblico e mi ricordo di quanto anche questo aspetto sia caratteristico: chiunque entri in quel circolo sta in religioso ed assoluto silenzio.
Il pubblico è composto, si sentono solo i rumori che provengono dagli altri campi.
Le sensazioni che avevo nel pre-gara si rispecchiano nell’andamento dei primi due set: gioco una buona gara, sono avanti 5-3 nel primo set ed ho il set point nel secondo.
Il mio avversario però riesce ad avere più concretezza nei momenti chiave e a portarsi a casa match e passaggio del turno.
E’ inutile provare a descrivere quanto questa sconfitta bruci dentro di me: l’amarezza di vedere sfumare il sogno di andare avanti è davvero troppo grande.
La delusione è la sensazione che, a caldo, sento maggiormente lasciando il campo.
Un campo che ogni bambino che si avvicina al mondo del tennis sogna prima o poi di calpestare.
Ma c’è qualcosa che, dentro di me, mi impedisce di essere negativo.
Saranno le sensazioni del match, sarà la consapevolezza di averci provato fino in fondo, sarà l’esperienza vissuta.
E soprattutto, è il pensiero del futuro a ritagliarsi uno spazio nella mia testa; quel futuro che nei prossimi cinque mesi di tornei mi porterà di nuovo sui campi in cemento all’aperto e che mi darà l’occasione di migliorare ancora.
La stagione è ancora lunga e pensare in grande è il primo passo per migliorarsi sempre.
La mattina dopo prendo l’aereo per casa, dove mi attendono due giorni di pausa per poi ricominciare subito a lavorare.
E mentre ripenso alla gara a mente fredda capisco perché la mia delusione ha lasciato presto il posto al pensiero luminoso dei prossimi tornei.
Ogni tanto si perde sapendo di aver giocato una pessima partita.
Ogni tanto si perde con la coscienza che l’avversario era troppo forte.
Ma questa è una di quelle volte in cui sai di esserci andato vicino.
E quando senti che è stata una battaglia alla pari, vuol dire che bisogna continuare a lavorare per fare quel passo in più.
Un passetto in avanti che magari, con le scarpe bianche ai piedi, potrò fare calpestando ancora i prati verdi di Wimbledon.