Perpignan contro Munster.
Partita di qualche anno fa, punteggio in bilico.
Le due squadre erano molto vicine, non solo sul tabellone, ma anche nel livello di stanchezza e di energie utilizzate durante il match.
Mischia per noi, sul lato destro.
Molto, molto vicino alla touche, con il campo largo e aperto.
La situazione ideale per provare una giocata fuori.
Ma nei minuti conclusivi la palla pesa qualche grammo in più del normale, e il cervello lavora sempre qualche decimo di secondo più lento perché è sotto pressione.
Se fai un errore alla mano, anche un errore banale, mentre cerchi di vincere la partita magari finisci col perderla.
Il coach ci gridava di andare stretti, di attaccare intorno al raggruppamento: così si accumula qualche fase, gli avanti sono vicini, forse gli altri sbagliano, o la loro disciplina viene meno e tu rischi poco ma mantieni possesso e campo.
In campo però succede sempre qualcosa di diverso.
Qualcosa di piccolo che rende ogni azione differente dalla precedente.
Il vento, la quantità di ossigeno che ti arriva al cervello, lo sguardo e gli occhi di chi sta a fianco, o di quelli che ti stanno davanti: spesso queste cose ti dicono di più di quanto non faccia una valutazione tecnica preparata a tavolino.
E questo mischia le carte in tavola.
Il bello di essere in campo con le scarpe di cui hai scelto tu i tacchetti, e non qualcun altro, è proprio questo: che puoi decidere.
Il libero arbitrio del giocatore di rugby: è piccolo, è breve e deve essere finalizzato sempre al gioco di squadra. Ma esiste.
Certo hai un game plan, hai delle direttive, delle giocate codificate; tutto vero e soprattutto tutto studiato nel minimo dettaglio durante il lavoro settimanale.
Ma lo spazio per la giocata c’è sempre (a volte essere creativi significa anche non provarla) ed in quella ci butti dentro tanta roba tua: istinto e coraggio, ma anche esperienza e comunicazione.
Al largo, in quella partita a Perpignan, c’era spazio, la disposizione della loro difesa ci avrebbe potuto permettere di fare una giocata in campo aperto. Quando ho incrociato gli occhi di Sofiane Guitoune, compagno di reparto, e ci ho visto dentro la stessa malizia che sentivo nei miei ci siamo buttati.
Comunicazione non verbale, l’eccitazione di quando vedi un’occasione per primo.
Giocata al largo e meta in una fase.
Il coach che passa da “mani nei capelli” e sguardo da “ve possino ammazzà” all’esultanza.
Non si tratta di estro, o meglio non soltanto di quello, perché per fare i playmaker di una squadra ti serve la collaborazione di molti elementi che interagiscono tra loro, cose che di solito, quando si fa un elenco, vengono separate da una o.
Lettura o esecuzione, inventiva o disciplina, pazienza o fretta.
Fare il mediano d’apertura mi piace moltissimo perché è un ruolo unico ed è molto cerebrale. Ovviamente nel rugby ogni ruolo custodisce un pezzetto di saggezza sconosciuta agli altri 14.
Prendi il pilone per esempio: chi può dirlo con esattezza che cosa accade in prima linea?
Ma giocare a numero 10 per me è la cosa più stimolante di tutte quante.
Sono nato in una famiglia di rugbisti: mamma giocava mediano di mischia nel Petrarca, mentre papà e zio, che sono scozzesi e che sono tutte e due tallonatori, hanno viaggiato molto grazie al rugby.
Ancora oggi dopo una partita mi capita, a volte, di confrontarmi con loro.
Ciò però che mi dà maggiore soddisfazione è riguardarmela da solo: analizzare le giocate dieci, cento volte, cercare di capire dove potevo, o magari dovevo, fare qualcosa di diverso.
Ho guardato prima lo schieramento degli avversari o prima la palla che arrivava verso le mie mani?
Ho calciato bene o c’era un pezzo di terra che il loro triangolo allargato stava coprendo male?
E cose del genere.
Una parte di questo modo maniacale di vivere il rugby l’ho acquisita in Inghilterra e in Sudafrica. Ci sono arrivato presto, negli anni della formazione, e quando ti insegnano qualcosa a quell’età poi ti resta dentro.
Da adulto magari cerchi di adattarti al tipo di gioco e di ambiente che trovi nella squadra, ma se ci vivi dentro quando sei un ragazzo, allora ne assimili un po’, ti si attacca ai muscoli e non te ne liberi più.
In Inghilterra per esempio sono fissati sui dettagli tecnici, anche quelli più piccoli, e te li fanno ripetere fino alla nausea. Situazioni tattiche, letture di gioco, meccanismi di reparto: tutto viene proposto decine e decine di volte, finché non li conosci così bene da poterli fare ad occhi chiusi.
Non basta l’efficacia: vogliono la perfezione.
In Sudafrica invece la pressione è meno estenuante a livello personale, anche perché io ho vissuto a Cape Town che è la patria dei surfisti e loro rilassati lo sono sempre, ma dal punto di vista atletico ti massacrano. Come i marines nei film americani.
Prima di essere bravo per loro devi essere fit.
Funziona così: noi, ogni settimana, vediamo quanto tu sei fit, poi, forse, tu fai vedere a noi quanto sei bravo.
Ogni mattina sveglia prima dell’alba e test con le navette australiane: parti da fondo campo, tocchi i cinque metri e ritorni, poi tocchi i dieci e ritorni e avanti così.
Tutto sprintando of course.
Poi la colazione e si può iniziare con l’allenamento “vero”, quello della squadra.
Se di lunedì riuscivi a stare dentro la tabella tempi delle navette australiane eri a posto per tutta la settimana, altrimenti la mattina dopo ripetevi il test prima della colazione. Finché nella tabella ci rientravi per forza perché era sabato e la settimana era finita.
Per cui oggi io mi sento un giocatore che porta in campo il misto di queste culture rugbistiche e di quella italiana, con il mio temperamento latino, che magari non si nota troppo fuori dal campo ma che mi si accende sempre quando sono dentro.
Quando ho cominciato a giocare a livello pro, è stato difficile riuscire ad impormi come comunicatore all’interno del gruppo, ma se di lavoro fai il mediano d’apertura non hai alternative al provarci, prima, e al riuscirci, poi.
Giocare a numero 10 ti obbliga ad affinare le tue qualità di decision making per te stesso ma anche per gli altri e questa è una di quelle cose che mi fanno amare a dismisura il mio lavoro.
Io penso che il cervello di ognuno sia programmato per adeguarsi agli stimoli che gli vengono proposti e durante questo processo di apprendimento si passa attraverso stadi differenti.
All’inizio lo stimolo nel fare qualcosa di nuovo è sempre eccitante, perché ti obbliga a metterti in gioco, anzi ti obbliga a fallire.
Ma ogni piccolo fallimento ti regala una scorta di energie nervose e sono quelle, quando ne hai ammucchiate un po’, a darti il boost necessario ad andare oltre la sfida.
Così si migliora.
Esattamente come funziona in sala pesi, dove sei tu a torturare volontariamente le fibre dei tuoi muscoli perché sai che quando si cicatrizzeranno saranno impercettibilmente più spesse e grosse di quelle prima. E tu performerai meglio.
Quand’ero a scuola ho provato tanti sport differenti: il tennis, il basket (dove giocavo ovviamente playmaker), il calcio.
E questa è stata una componente fondamentale per permettermi di sviluppare qualità diverse tra loro, e di restare mentalmente uno studente del gioco.
Io adoro guardare gli altri sport in tv e, se ci riesco anche live.
Ci sono decine di campioni e tante situazioni tattiche dalle quali imparare anche se lo sport trasmesso non è il tuo. Tutto può dare una mano a diversificare le tue skills.
Adoro l’NBA per esempio.
L’esecuzione del gesto tecnico nel basket americano è davvero curata nel minimo dettaglio, basta pensare all’equilibrio di mani e piedi che serve per tirare da tre, magari da lontanissimo, come fanno oggi i giocatori migliori. Ma tutto deve avvenire in un centesimo di secondo perché la velocità del gioco è diventata pazzesca e altrettanto la pressione che la difesa riesce a mettere sull’attaccante.
Nel calcio è incredibile osservare come alcuni centrocampisti riescano a gestire i tempi del gioco con semplicità ed efficacia per 90 minuti. In un solo sguardo devono abbracciare la palla che arriva, il compagno a cui passarla e l’avversario che li aggredisce. E spesso lo fanno stando spalle alla porta.
E il football americano invece?
I quarteback sono dei veri e propri computer: hanno playbook di oltre 200 pagine, piene di schemi, di varianti e letture differenti. Tutte sempre codificate.
Eppure anche loro cambiano spesso le cose in corsa, leggono il posizionamento della difesa durante lo snap o vanno volontariamente ad esplorare la terza o quarta opzione della giocata rischiando la propria incolumità.
Io mi sento come una spugna: guardo tutti gli sport possibili e cerco che di ognuno di questi qualcosa mi resti addosso, che siano tutte occasioni per aggiungere qualcosa al mio bagaglio tecnico e alla mia capacità di decision making.
Il rugby moderno è una giungla.
Una giungla pericolosa e per sopravvivere devi essere Rambo, non un turista da safari in macchina.
Soprattutto a livello internazionale è diventato impossibile prevedere tutte le variabili in anticipo, anche analizzandole per provare ad imporre un tipo di gioco piuttosto che un altro.
A livello tattico tutte le squadre sono preparate, organizzate, capaci di selezionare e punire le tue debolezze e di proporre un rugby congeniale alle proprie qualità migliori.
Il livello di atletismo raggiunto da praticamente tutte le squadre è tale da dimezzarti il tempo che hai per ragionare e l’ossigeno che ti arriva al cervello nei finali di partita è sempre poco.
Per questo nel rugby di oggi prendere una decisione è questione di istanti.
Istanti nei quali “intuizione” e “game-plan” si sono già scambiati un’occhiata veloce e ti hanno inviato un file alle mani e ai piedi.
Spesso è un buon file, a volte è quello perfetto per l’occasione, altre invece decisamente no. Ma in questo l’esperienza aiuta.
Il campo da rugby è davvero come un’enorme scacchiera con dentro le persone in carne e ossa a farsi cavallerescamente la guerra.
E capita di finire contro gente talmente dura che sembra davvero di essere andati addosso alla torre.
Il mio sport assomiglia agli scacchi perché nel rugby devi riuscire a pensare ben oltre la giocata che stai per fare: devi guardare avanti. Ma nel farlo non ti puoi permettere di diminuire il livello di energia e di cattiveria agonistica, altrimenti perdi la collisione, l’abbrivio e tutto il sistema, offensivo o difensivo, crolla.
Bisogna pensare a come questa fase di gioco farà disporre la difesa avversaria nella prossima. Bisogna avere chiaro quello che il tuo gioco creerà da lì a breve.
Non solo per la tua squadra ma anche per quella avversaria.
Proporre due o tre fasi vicino agli avanti, con l’intento di trovarli scoperti fuori alla quarta.
O allargare il gioco più volte di fila per far stringere le ali e l’estremo in mezzo al campo e poi calciare alle loro spalle.
Oppure provare ad impedire che lo facciano con te quando la palla in mano ce l’hanno loro.
Il rugby è un misto unico di tecnica, tattica ed esplosione atletica, e osservarlo dal vivo, o meglio ancora da dentro al campo cambia completamente la percezione di come si muovono le pedine sullo scacchiere.
È un gioco di fisico, di cervello e di nervi nel quale non si smette mai di imparare.
E niente, niente, da soddisfazione come quando prevedi correttamente le prossime quattro o cinque mosse e fai scacco matto.