Quando ho visto per la prima volta il rugby in tv, avevo otto o nove anni.
Davano una partita del Sei Nazioni. Francia-Irlanda, per essere precisi.
Una partita fenomenale.
Mi è piaciuta così tanto che ne ho guardate sempre di più. E ho cominciato a capire i gesti e i movimenti che si facevano, magari anche solo in maniera inconscia.
Sono uno che impara molto guardando, quindi aver visto tutte quelle partite mi ha dato una grande mano.
Mi sono nutrito di informazioni che ho usato poi per pareggiare il gap con tutti quei bambini che avevano iniziato a giocare molto prima di me. Ai tempi loro, sia mio zio che mio padre hanno giocato. Ma non mi hanno mai spinto verso il rugby. Mi hanno detto «fai quello che vuoi fare», così io ho fatto basket, nuoto, tennis, calcio… anche se a calcio alla fine mi mettevano sempre in porta, solo perché ero più grosso degli altri.
Ho iniziato a giocare a rugby che avevo undici anni, gli stessi di Harry Potter quando entra nella bottega di Olivander per trovare la sua bacchetta magica.
Come lui, ne ho dovute provare altre prima di capire quale fosse quella più adatta a me. E quando l’ho trovata, ho sentito subito che avrebbe funzionato.
Non saprei spiegarlo bene.
È come l’amore: quando nasce, non sai veramente come sia successo. Non sai perché il tuo cervello abbia scelto quella persona.
È semplicemente tutta un’altra sensazione.
Ce l’ho ben presente nella mia mente, ma non so spiegarla.
L’ho sempre banalizzata, dicendo che gli altri sport non mi davano il contatto.
È vero, ma non è solamente quello. È proprio qualcosa che mi si è smosso dentro.
Io ho scelto il rugby, ma soprattutto il rugby ha scelto me.
È la bacchetta a scegliere il mago, signor Potter. Non è sempre chiaro il perché, ma credo che sia chiaro che noi possiamo aspettarci grandi cose da lei.
Io non ho sconfitto il Signore Oscuro, né tantomeno il suo esercito di Mangiamorte. Ma qualche grande cosa, nella mia vita, spero comunque di farla.
Anzi, dai, qualche piccola grande cosa credo anche di averla già fatta.
La mia prima meta, per esempio. Quella è di sicuro una piccola grande cosa. Anche se magari, lì per lì, non ne aveva per niente l’aspetto.
In effetti, è stato un momento un po’ comico.
Avete presente la scena di football americano in Forrest Gump?
Forrest ha la palla tra le mani e corre scartando ogni avversario, ma non ha nessuna idea di cosa fare veramente, di dove andare. E allora allenatori, dirigenti, compagni e tifosi gli urlano contro e lo spingono con i gesti fino alla endzone, l’area di meta.
Ecco, è andata un po’ così.
Era la prima volta che mettevo la maglia del Mogliano Rugby, una società a 5 km da casa mia, ed entravo per davvero in un campo da gioco. La mia prima partita.
Giocavamo contro il Casale, ancora me lo ricordo.
Ne ho fatte quattro, di mete.
Ma la cosa divertente è che, in realtà, non sapevo neanche dove andare a schiacciare.
Io ero abituato a vedere il Sei Nazioni in tv, con i suoi stadi immensi e i loro pali giganteschi.
A campo ridotto, come si gioca da bambini, semplicemente non mi ritrovavo. Non avevo i giusti punti di riferimento.
C’erano i conetti a delimitare le aree di gioco, ma potevo giurare che io, alla tv, quei conetti non li avevo proprio mai visti.
Non sapevo dove andare.
Così, la prima volta che sono arrivato nell’area di meta, la verità è che neanche me ne sono accorto.
Sono stati i miei compagni, il mio allenatore e tutti i genitori a urlarmi: «Vai giù! Vai giù!»
Allora sono andato giù. E tutti a festeggiare.
Poi le piccole grandi cose sono cresciute assieme a me.
Per esempio, ricordo una partita in particolare che ha segnato in maniera decisiva la mia carriera. La mia più grande soddisfazione su un campo da rugby.
Giocavo ancora a Mogliano ed era il periodo in cui si sarebbe visto se potevo o non potevo fare il grande salto che mi avrebbe portato a giocare a livello internazionale.
In genere, per sperarci, dopo tre-quattro anni di Eccellenza devi già esserci riuscito. E io ero al mio terzo.
In un periodo così tosto per me, giochiamo oltretutto una partita fondamentale contro il Calvisano.
La ricordo benissimo, come se la stessi ancora vivendo.
Lo stadio è pieno, io parto titolare.
Subito mi danno una palla complicata e la passo così, un po’ senza guardare.
Intercetto, meta.
Diamine.
A quel punto cerco in tutti i modi di farmi perdonare l’errore, ma non ci riesco.
Al 35’ vedo un buco nella difesa.
È l’occasione giusta.
La passo proprio lì, ma mi sfugge che nei paraggi c’è anche la loro ala che intercetta, va cinquanta metri in corsa e fa meta.
E due.
Bene.
In quel momento, l’allenatore poteva dirmi: «Okay, Tommy. Hai fatto pietà. Esci».
E magari non sarei riuscito a centrare gli obiettivi che mi ero prefissato per la mia carriera.
Invece per fortuna a parlarmi è stato Pucci, mio capitano e grande amico: «Se ti butti giù adesso, Tommy, ti meno fortissimo».
Difficilmente avrebbe potuto dirmi parole più motivanti.
Intorno al 60’ prendo palla e corro incontro alla loro difesa, che è bella avanzante. Mi tirano giù, ma riesco a scaricare un offload, un passaggio rovesciato dietro la schiena del mio avversario, con cui mando in meta il nostro estremo.
È un gesto tecnico che mi è rimasto impresso, perché mi è venuto proprio bene.
I ragazzi mi fanno i complimenti, mi riconoscono di non essermi lasciato abbattere, di aver saputo reagire.
Siamo ancora sotto, ma ricomincio a respirare.
Provo un po’ di percussioni, perché voglio riscattarmi completamente. In fondo, sono ancora in debito di una meta con i miei compagni.
Mancano cinque minuti alla fine.
Rompo un placcaggio.
Ne rompo un altro.
Meta.
Sono arrivate tante di quelle botte, a quel punto. Ma tante.
Tutte dai miei compagni, eh. Soprattutto quelli più vecchi.
E avevano ragione a darmele, potevo anche evitarmi quei due errori da cretino a inizio partita.
Quindi me le sono prese senza fiatare.
Alla fine, comunque, siamo riusciti a vincere. Anche per quella meta lì.
E quella partita, per me e per la mia carriera, è rimasta qualcosa di straordinario. Un giorno di grandissima crescita personale.
Mi ha fatto capire che si può andare in difficoltà, ma che ne se può anche uscire.
Pure se ci si è finiti da soli, perché la squadra in realtà non sta andando così male e sei soltanto tu che coli a picco.
Se ne può uscire.
E poi mi ha fatto capire che non è mai troppo tardi, in campo come nella vita e in amore.
Come quando pensi di essere in ritardo per andare a scuola, ma poi ti accorgi che sono ancora le 7:55.
Ognuno ha i suoi tempi. Ognuno percorre il proprio cammino. Ognuno compie le sue scelte quando è pronto a farlo.
A un primo tempo terribile può seguire una ripresa eccezionale.
E partendo da grandi difficoltà, si può finire per giocare la partita più importante della propria carriera.
Più di quella in cui ho segnato la meta alla Nuova Zelanda. Direi di sì.
Anche se contro gli All Blacks ho effettivamente vissuto uno dei momenti più belli della mia vita, oltre che della mia carriera.
Non la meta in sé.
Né tantomeno l’aver assistito alla Haka.
Sono sincero: non mi ha messo paura, né timore, né rabbia. È una cosa che fanno, fine.
Quella partita lì è stata speciale per altro.
Nello specifico, in quell’occasione ho vissuto il mio più bel terzo tempo.
No, non di quelli a cui state pensando voi. Non per la birra (o alle Figi la kava, quella sì che ti mette di buon umore!), i canti e tutto il resto.
È stata speciale perché, quando sono uscito dalla spogliatoio a fine partita, ho trovato mio padre con gli occhi lucidi, mia mamma in lacrime e mia sorella che esplodeva dalla gioia.
Le stesse persone che mi accompagnavano tutti i giorni con la macchina al campo di allenamento.
Quelle che dovevano fare i conti con la mia euforia dopo una vittoria, ma che si dovevano anche sorbire i miei malumori dopo una sconfitta.
E che mi hanno sempre, sempre sostenuto.
Pensavo a loro mentre correvo con la palla e andavo a fare meta.
E ora li avevo resi così orgogliosi di me.
Ci siamo abbracciati forte, è stato davvero un momento pieno di emozione.
Il loro abbraccio: quello sì che lo porterò sempre nel cuore.
Una grande grande cosa.