Tommaso Boni

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A volte è facile sentirsi un fallito, nello sport.

È tutto così complicato.

Tutto pensato ad un così alto livello.

Tutto viene pesato, misurato, provato e riprovato.

Tutto viene messo sotto al microscopio.

Dieta, allenamento, sala pesi.

Riposo, mental health, ripetizioni.

Tutto è tanto dannatamente studiato, che quando fallisci resta un solo possibile colpevole. Tu.

Tu, che non sei abbastanza.

Tu, che non sei forte quanto gli altri.

Tu, che sono anni che cerchi di arrivare ma alla fine non arrivi mai.

E più passa il tempo e più gli altri ti sorpassano, anche quelli che quando hai iniziato a correre tu, erano soltanto ragazzini delle giovanili.

Tommaso Boni

Chiunque abbia mai giocato a rugby sa che questo non è certo uno di quegli sport in cui puoi provare a bluffare, di tanto in tanto.

Non puoi farlo mai, neppure una volta.

Perché ogni volta che nascondi una carta, l’avversario viene a “vedere”, e quando scopre l’inghippo ti ara via, ti distrugge, ti spezza in due.

È una disciplina che chiede tanto, e che pretende anche la tua abnegazione mentale, non soltanto il tuo corpo. Vuole tutto, vuole la tua anima, in ogni singolo allenamento.

Per questo non ho mai fatto fatica ad accettare i miei fallimenti, in campo.

E sempre per questo ho fatto un’enorme fatica ad accettare quelli che non lo sono stati, ma che mi hanno presentato lo stesso come tali.

Giuro, ci ho provato a tornare in nazionale.

Ci ho provato con tutte le mie forze.

Per anni.

Oltre 3, anzi quasi 4.

Settimane infinite in cui il mio solo ed unico obiettivo era riguadagnarmi l’azzurro, un premio che desideravo con tutto il cuore, e che ho inseguito nel solo modo che conoscessi: rompendomi il culo in allenamento e in partita.

Tommaso Boni

Il punto di non ritorno è stato nel novembre del 2021.

Dopo 46 mesi in cui ero stato convocato a volte, ma senza una singola occasione di scendere in campo, sono finalmente riuscito a tornare in gruppo per una tournée autunnale, e non stavo più nella pelle all’idea che il mio momento fosse arrivato.

Di quei 46 mesi, gli ultimi 18 erano stati splendidi, in campo, e io non mi ero mai sentito più forte di così.

Ero in salute, ero al top della forma.

Giocavo con grande continuità, e stavo esprimendo una completezza di gioco che non avevo mai raggiunto prima.

Metri con la palla in mano, offload, buone letture, tanti placcaggi.

Ero diventato la miglior versione del rugbista che potevo essere, rinascendo dagli infortuni e dalle delusioni. Nel pieno della mia maturità, volevo soltanto una chance.

Dopo tanto tempo, tutto quello che volevo era un’occasione, per far vedere a tutti che quella maglia la meritavo quanto e più degli altri.

E invece nulla.

Tommaso Boni

Un mese e nulla.

Niente di niente.

All Blacks, Argentina, Uruguay e di tutti i giocatori convocati per i test, sono stato il solo a non mettere il piede in campo neppure un minuto.

Soltanto io, di tutti i presenti.

Quando arrivi da un inseguimento così lungo, i tuoi sensi sono più aguzzi che mai.

Diventi più cinico, inizi a cogliere tutti quei piccoli segnali che magari sono sempre esistiti, ma che tu sei stato troppo ingenuo per comprendere.

Mi è stato detto che pagavo il fatto di giocare alle Zebre, che quello staff aveva costruito un rapporto solido con il blocco Benetton, che c’era una diversa conoscenza reciproca.

Sicurezze diverse.

Mi è stato detto di essere il quarto centro tra quattro centri, e di dovermene fare una ragione. Anche se mi sentivo il più in forma dei quattro, anche se sentivo che la scelta non fosse stata completamente trasparente.

Chi mi conosce e mi è stato vicino sa quanto io abbia sofferto.

Quanto abbia lavorato duramente e quanto mi abbia fatto male toccare con mano che spaccarsi la schiena non significa poi molto, quando c’è di mezzo un giudizio politico.

Mi sono tolto da instagram, mi sono allontanato dai social e ho smesso di leggere i giornali, le riviste e i siti specializzati. Mi sono chiuso in una bolla tutta mia, dove contavano solo i miei cari e la fatica, e dove potessi costruirmi un sogno nuovo.

Visto che quello vecchio era morto, per me.

Tommaso Boni

Mio nonno paterno è nato negli Stati Uniti, perché la nostra famiglia, come tante altre, ha attraversato l’Oceano alla ricerca di una vita migliore.

Così, io sono cresciuto con il mito americano, con l’aura magica di New York negli occhi, con l’amore per il football, con l’intimo desiderio di andarci a vivere, prima o poi.

Sfumato l’obiettivo di tornare in azzurro, dopo quella tournée deludente, ho iniziato a spostare il mirino, cercando di diventare eleggibile per la nazionale a stelle e strisce.

Ho comunicato ai miei compagni più cari e a parte dello staff azzurro che non avrei risposto alla convocazione per il Six Nations del 2022, nonostante gli infortuni mi avrebbero aperto qualche porticina interessante, perché non volevo essere selezionato soltanto per i problemi degli altri.

Qualcosa si era rotto, e non volevo accettare di mettere un cerotto temporaneo, e poi ritrovarmi a sanguinare ancora, non appena si fosse staccato.

Dire no alla nazionale è stato difficilissimo, ma è stato anche un momento di grande liberazione personale e professionale. Non che la cosa li avesse fatti preoccupare più di tanto, oppure scossi: la strada, in fondo, era già segnata.

Ecco, poi non è che diventare americano sia stato esattamente una passeggiata, anzi.

La loro nazionale ha fallito la qualificazione al Mondiale, di fatto esplodendo dall’interno. Una crisi profondissima, che li ha obbligati a ripartire da zero, a cercare nuovi sponsor e a scegliere uno staff tecnico diverso.

Nel frattempo io, ho passato 18 mesi ad inseguire le carte, tra mail e telefono, nel disperato tentativo di sistemare le cosa dal punto di vista burocratico e di mettermi in contatto con il nuovo coach, Scott Lawrence, per provare a convincerlo a darmi un’opportunità.

C’è voluto un anno e mezzo, prima di ricevere quella telefonata, la chiamata che mi avrebbe riaperto le porte del rugby internazionale.

Quella che mi avrebbe riportato in una nazionale.

All’inizio mi chiedevo cosa dovessi fare.

Se fosse giusto cantare l’inno, o se fosse sbagliato sentirmi già a “casa”.

Poi il loro patriottismo mi ha travolto, e ho deciso di abbracciare l’esperienza per quello che è. Ho deciso di viverla come ho sempre voluto che la vivessero gli equiparati che hanno giocato con me in azzurro.

Con trasporto.

Con cuore.

Perché è il solo modo in cui è possibile giocare a rugby.

Ho cantato a squarciagola the Star-spangled banner e imparato tutte le chiamate in campo, che riprendono i termini spaziali usati dalla NASA, in pieno stile americano.

Ho firmato con una squadra americana, i Washington Old Glory, ed è lì che mi sono trasferito con tutta la famiglia.

È li che crescerà la nostra primogenita.

Perché ho capito che non si può dare un prezzo ad un sogno, e che quando qualcuno è così gentile da dartene uno nuovo devi restituirgli il meglio che hai.

Tommaso Boni / Contributor

Tommaso Boni