Valentina Margaglio
Ho sempre pensato che il mio talento non dovesse andare sprecato.
Potrebbe sembrare arrogante, ma sinceramente non ho mai dubitato di essere destinata a qualcosa di memorabile. Nel periodo più buio della mia carriera, mentre faticavo ad allenarmi e mi sostentavo con la paga da cameriera, io ero comunque convinta di valere una convocazione ai Giochi Olimpici.
Non sapevo in quale sport, ma non avevo comunque alcun dubbio.
Persino quando ho deciso di mettere da parte lo sport e provare a sfondare nella musica, ero sicura che le mie qualità nascondessero qualcosa di unico, di magico, e che presto o tardi se ne sarebbero accorti tutti.
Ho fatto anche il provino per X Factor, ma al momento della verità mi sono dimenticata le parole. Così non sono più diventata una popstar planetaria, e sono tornata a dedicarmi allo sport, che era con me fin dall’infanzia.
La mia prima staffetta l’ho vissuta in casa, dove eravamo tre sorelle e un fratello.
Era la nostra versione della “4 per qualcosa”.
E non dico della “4 per cento” perché cento metri, per me che mi stanco subito, sono troppi. E se sono troppi allora mi stufo e poi non mi va più, non mi sposta neppure un mezzo cingolato.
Tre fratelli possono essere i primi avversari che incontri sulla strada, ma anche i primi compagni di squadra che tu possa mai avere, e la linea di demarcazione tra l’una e l’altra cosa cambia al cambiare del vento oppure dell’umore di uno dei quattro.
Vivevamo in una casa parrocchiale, e noi, da brave giovani marmotte, avevamo scoperto un passaggio segreto che conduceva fino in chiesa.
Che poi fosse il segreto di Pulcinella e lo sapessero anche tutti i grandi di casa, questo non lo so, fatto sta che noi, ogni sera, attraversavamo il nostro portale speciale e diventavamo i re del sagrato.
Eravamo chiassosissimi.
Mai fermi e sempre pronti a nuove avventure.
La prima corsa in assoluto l’ho fatta per scappare dalle mie sorelle, sempre arrabbiate con me, che mille ne pensavo e duemila ne facevo, e questo, conti alla mano, vuol dire che circa un migliaio delle cose che facevo non erano state studiate proprio nei minimi dettagli.
In più, quando poi ho visto che a scappare ero anche piuttosto veloce, ho smesso di farmi qualsiasi tipo di problema e ho cominciato a seguire del tutto i miei istinti. Come quella volta in cui sono diventata la Signora delle oche.
Appena fuori casa avevamo un bel cortile, dove vivevano tutti i nostri animali.
A me piaceva da morire il recinto delle oche.
Però, a prescindere da quel che raccontano i cartoni animati, papere e oche non sempre poi esseri così amichevoli, e se le becchi quando hanno le scatole girate, o i loro affari da sbrigare, è un attimo a finire in una zuffa.
Comunque, pare che io, a circa tre anni, fossi partita di gran carriera da casa, avessi fatto le scale a tutta velocità e mi fossi fiondata nel bel mezzo del recinto delle oche, che, a sorpresa, invece di mordermi e scacciarmi dalla loro proprietà, si erano tutte riunite intorno a me, come se stessero frequentando un corso di meditazione.
E mentre mamma mi cercava allarmata, io, bella pacifica, contemplavo il Mondo dal centro del mio regno.
Tentativi con la danza
Uno dei momenti clou della nostra infanzia, di quelli in cui tra fratelli scattava addirittura l’armistizio, per combattere insieme un nemico più potente e pericoloso, era il giorno delle frittelle.
Mamma cucinava queste magnifiche frittelle, con una tradizionalissima ricetta della Costa D’Avorio, e a noi piacevano da impazzire. Quindi ricordo il nostro plotone schierato in ordine perfetto, pronto ad azzannare la prelibatezza tanto attesa, e immerso in una sinistra bolla di tranquillità.
La classica quiete prima della tempesta.
Perché poi, appena venivano tolte dall’olio bollente partiva la ressa, e finivamo uno sopra l’altro con le dita ustionate, che non esisteva abbastanza zucchero per raffreddarle sufficientemente in fretta. Per qualche ora perdevi l’uso delle papille gustative, ma ne valeva davvero la pena.
Primo sport, pallavolo
Dopo aver passato anni a scappare da mio fratello e dalle mie sorelle, in seconda o terza elementare, ho fatto la vera gara inaugurale della mia vita, che contro ogni più rosea previsione è andata benissimo.
Sono stata insperatamente velocissima, finendo seconda al fotofinish, e obbligando moralmente le mie maestre a difendere il mio onore, perorando con il giudice la causa di una mia “evidente” vittoria finale.
Correre a lungo non mi piaceva granché, e ancora non mi piace, ma negli anni a seguire è diventato comunque il pezzo forte del mio repertorio. Odiavo la corsa campestre della scuola, era la cosa peggiore al Mondo, ma purtroppo vincevo spesso e questo mi obbligava a prendere la cosa piuttosto seriamente.
La velocità è diventata il mio marchio di fabbrica, anche se non riusciva in nessun modo ad entusiasmarmi quanto i risultati avrebbero suggerito. Avevo provato anche altri sport, come il judo e il nuoto, ma quello era uno sforzo diverso, che non riguardava il fiato. E quando si parlava di fiato, io ero più forte delle altre bambine.
Quello della fatica è sempre stato un bel problema.
Io pensavo di fare fatica perché non mi stavo allenando abbastanza. Però più lavoravo e più facevo fatica, incastrandomi così in un vicolo cieco.
L’atletica è stato il mio primo sport, e non si può certo dire che non fossi portata.
Non che amassi molto essere identificata come “la sportiva”, soprattutto alle superiori, dove mi impegnavo un sacco a fare vedere tutti i diversi lati del mio carattere, e dove, se non fosse perché venivo sempre scelta per prima durante l’ora di educazione fisica, sarei anche potuta passare per una studente “normale”.
In casa, ci riuscivo meglio, a passare sotto i radar, soprattutto grazie alle doti di mio fratello. Lui giocava nelle giovanili del Parma calcio, e portava sulle spalle tutto il peso del futuro dei Margaglio.
Sarebbe arrivato in serie A, perché era il talentuoso di famiglia.
Non mi è mai mancato nulla, sia chiaro.
Però con lui si disquisiva di tattica sopraffina, mentre a me veniva chiesto: “vai a fare la ginnastica?”. Lui veniva scarrozzato in giro come una pascià, mentre io invece mi dovevo arrangiare da sola e con i mezzi.
I miei sono stati ottimi genitori, ma se avessero dovuto scommettere una frittella su chi avrebbe fatto carriera nello sport, non l’avrebbero mai puntata su di me.
Finita la scuola è arrivato il momento più difficile in assoluto, durante il quale ho smesso di fare atletica e cominciato a lavorare. Quello in cui pensavo che il mio talento non dovesse andare sprecato, ma non sapevo neppure che forma avesse.
Ho un rispetto infinito per qualsiasi lavoro umile, ne ho fatto più d’uno e, senza dubbio, sarei pronta a farne ancora. Ma sentivo qualcosa di irrequieto dentro di me, un pezzo della mia anima che era ancora in cerca del proprio posto, e della propria definitiva soddisfazione.
Il passaggio agli sport invernali è stato sia improvviso che lento e graduale: è una storia lunga, ma allo stesso tempo che avanza per grandi scoperte importanti, che il giorno prima non ci sono, e quello dopo invece sì.
Nel 2012 organizzarono le Olimpiadi Giovanili ad Innsbruck, ed io, che non avevo mai smesso di frequentare il campo di atletica di Vercelli, mi ritrovai a provare il bob. Avevo trascorso tutta l’estate precedente a lavorare nei villaggi turistici, e la buona cucina che avevo testato lì mi aveva restituito una silhouette un po’ più robusta del solito.
Insomma: ero più in carne di quanto non fossi mai stata.
Così, ho scoperto un universo parallelo, e tentativo dopo tentativo, sono finita con l’innamorarmi dello skeleton.
Prima gara di Skeleton tre punti di sutura
È uno sport unico, che mi ha fatto perdere la testa anche se nel giorno della mia primissima esibizione sono finita in pronto soccorso a farmi mettere tre punti sotto al mento.
È un tuffo verso valle, come una donna-proiettile sparata dalla cima, che deve addomesticare una montagna intera, tenendo a mente mille cose al secondo. Adrenalina e matematica, pensiero e istinto: è lo sport perfetto per me.
Ci sono tantissime guide da fare, e il ghiaccio ti parla in continuazione, perché tutto quello che interagisce con lui, (aria, sole, vento, umidità) alla fine interagisce anche con te, che sei costretta ad avere un piano A, un piano B e quantomeno un piano C.
Devi essere spigolosa e rilassata.
Concentratissima ma non rigida.
Tutto e il contrario di tutto.
Oggi so che, quando sono in partenza, se sento le gambe molli, allora spingerò fortissimo e la gara andrà benone, ma se sento le braccia molli allora è il momento di preoccuparsi, perché i dubbi non sono su di me, ma sono sulla pista.
Io, comunque, per non far credere di essere normale, sorrido sempre, anche quando in realtà mi sto cagando addosso.
Ad essere del tutto onesta, nelle ultime gare, ho sentito anche qualcosa di nuovo, di diverso: non ho sentito proprio nulla, né nelle gambe, né nelle braccia. E ho gareggiato serena, come se finalmente avessi compreso tutto quello che c’era da comprendere sulla natura del mio sport.
Che questa sia la verità o una magnifica suggestione preolimpica sarà il tempo a dirlo, quel che è certo è che il tempismo mi sembra proprio perfetto.
È perfetto sì, perché anche se ho sempre saputo di valere i Giochi, per tanto tempo non ho avuto neppure idea di che cosa ci sarei potuta andare a fare. A volte ho avuto paura di aver smarrito la strada, o di aver sbagliato rotta fin dal principio.
Ma alla fine non posso che dirmi brava.
Non vado in Cina soltanto per partecipare, voglio anche competere, ma comunque brava me lo dico già, perché mi sono sempre saputa arrangiare, non ho mai smesso di credere di avere qualcosa di speciale e soprattutto sono sempre rimasta la bambina che ero: Signora delle oche, staffettista della “4 per qualcosa” e regina del sagrato.