Vito Dell’Aquila

9 MIN

La mia forza è la normalità.

Perché nella normalità ci sono io, e io mi piaccio esattamente così come sono.

Le apparenze ingannano.

Le proporzioni ingannano, muscoli e leve lasciano il passo al pensiero, al ragionamento, che arriva prima, è più veloce e si adatta ad ogni cosa.

Non dirmi che sono un “mostro”, che non mi piace.

Anche se sei convinto di farmi un complimento, di farmi sentire speciale, non dirlo.

C’è sempre quella sfumatura negativa, mostro, che il mio cervello associa alla brutalità, alla forza fisica nuda e cruda, senz’anima.

E non è questo il teakwondo.

Non sono queste le arti marziali.

Non sono io, questo.

Dimmi piuttosto che sono bravo.

Allora si, che mi sento capito.

Riconosci il lavoro, la tecnica, lo studio. L’umiltà di chi sa di non sapere, e quindi si applica, cosciente che prima di tutto, quel che facciamo, è una ricerca interiore.

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Al mio papà piacevano tanto i film di Bruce Lee, ma quando provava a farmeli guardare io scappavo, che mi annoiavano da morire.

In famiglia nessuno aveva fatto sport, prima di me e di mio fratello Mimmo, e noi, in quella palestra di Mesagne, ci siamo arrivati proprio perché papà pensava che le arti marziali ci avrebbero fatto bene.

Che ci avrebbero aiutato a combattere la timidezza.

Così ci presentammo al cospetto del maestro Roberto Balivo senza dobok e senza cintura, e senza neppure sapere molto di quello che avremmo trovato in lui.

O nella sua disciplina.

In t-shirt e in pantaloncini ci fece comunque salire sul tappeto, in un rituale che poi, negli anni a venire, avremmo ripetuto migliaia di volte.

Amandine-Lauriol

© Amandine Laurio

Il teakwondo è tantissime cose diverse, ed ognuna di esse vale quanto le altre.

Per qualcuno è una forma di autodifesa, il modo per combattere il bullismo.

Secondo altri è uno strumento per conoscere se stessi e migliorare così la propria autostima, la propria sicurezza.

Per altri ancora è una sfida, un gioco di nobiltà e coraggio che, se diventi bravo, può portarti lontano, persino fino alla porta delle Olimpiadi.

Amandine-Lauriol

© Denis Sekretev

“Quasi non sembra che fai teakwondo!”

Grazie, dico io.

Quando me lo dicono non mi offendo, anzi.

Perché penso che non si debba per forza essere alti o muscolosi per diventare bravi.

Perché penso che ridurlo ad un qualcosa di unicamente fisico sia un limite, un errore, quasi un peccato, visto che questa è l’arte dell’equilibrio dell’anima.

E l’anima forte non ha misure.

Né in centimetri né in chili.

Amandine-Lauriol

© Amandine Lauriol

Io mi sono appassionato allo studio del dettaglio, all’analisi della tecnica.

Sono diventato un secchione della disciplina.

Senza eccellere davvero in nulla, ma senza dimenticarmi di niente.

Sono diventato forte pensando alle cose pratiche, quelle che mi fanno funzionare sul tappeto, come se davanti non avessi un avversario, ma un problema da risolvere.

Più grande è il problema e più devi scavare dentro per trovare le risposte.

Ogni risposta è come una scoperta.

E ogni scoperta è un pezzo di te.

Un atomo pensante.

Amandine-Lauriol

© Denis Sekretev

Non basta fermarsi al limite del consentito.

Serve ascoltare anche il limite del buon senso, sul tappeto.

Il mio io interiore mi obbliga ad essere sempre in linea con la mia persona, a volte anche rinunciando ad un calcio, se l’istinto ti dice che non riflette chi sei.

Perché non sei da solo, quando combatti.

Sei anche la tua arte, la tua disciplina.

E vincere disonorandola non ha davvero alcun valore.

C’è la soddisfazione personale, nella materia di cui è fatta una medaglia, ma non è questo ciò per cui combatto, non è ciò che devo trasmettere agli altri.

Io non voglio essere guardato.

Voglio essere capito.

Denis-Sekretev

© Roberto Di Tondo

All’inizio sembrava che fosse Mimmo, di noi, quello portato per la disciplina.

Quando andati a Baku per il Mondiale cadetti, sembravo il suo accompagnatore.

Il suo +1.

Ero così convinto di essere scarso.

Di essere super scarso.

La notte prima non ho chiuso occhio, perché pensavo agli avversari che mi avrebbero raso al suolo, il mattino seguente.

C’era il mito degli stranieri, che sono più bravi e belli di noi.

C’era la sensazione di essere così piccolo.

Così normale.

Denis-Sekretev

© Denis Sekretev

Dieci anni più tardi, quella normalità è la cosa più cara che ho, quella che mi rende fiero, che mi rende felice di fare quello che faccio.

E, soprattutto, di farlo come lo faccio.

Sento un contatto con le origini di quest’arte, come se avessimo un rapporto intimo e personale. Come se ci capissimo.

Nessun calcio è davvero un calcio.
Sono solo tre punti.

Dati o presi.

Nulla di più e nulla di meno.

Nella storicità di una disciplina antica, il segreto dell’equilibrio è nell’assoluta, semplice, eterna, normalità.

Denis-Sekretev

© Amandine Laurio

Eccolo, forse, il messaggio che vorrei mandare, quello che sento davvero mio.

Dietro l’oro Europeo, dietro quello Mondiale e persino dietro quello Olimpico, c’è un ragazzo normale, a cui non piacevano i film di Bruce Lee.

Un ragazzo che ha avuto paura di essere raso al suolo dagli avversari.

E che poi ha imparato a trasformarli in problemi da risolvere.

Perché il “problema” è un modo di scoprire qualcosa di nuovo.

Un ragazzo cresciuto a Mesagne, nella capitale mondiale del teakwondo, che deve tanto a tante persone, e che preferisce essere definito bravo piuttosto che forte.

Un ragazzo alto come gli altri, muscoloso come gli altri e gentile come pochi, che ha passato più di metà della sua vita a sudare su un tappeto.

Vito Dell’Aquila / Contributor

Vito Dell’Aquila